25 o 26 aprile: quale liberazione?

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Vittorio Viola – Vescovo di Tortona

Il 25 aprile è abituato, purtroppo, ad essere vittima di contese che inevitabilmente finiscono per offuscarne la verità storica. Solo due anni dopo la sua istituzione cessava di essere celebrato con la partecipazione unitaria dei partiti antifascisti in manifestazioni ufficiali e popolari, con relative reciproche accuse tra le parti di aver tradito lo spirito della Resistenza. Quella celebrazione unitaria è stata, negli anni, più volte invocata da autorevoli appelli istituzionali a difesa di una festa che, per tanti motivi, non può che essere di tutti gli italiani. Appelli non sempre ascoltati.

Quest’anno il 25 aprile corre un nuovo pericolo: il 26 aprile. L’annuncio di una prevista serie di aperture sembra fare di quest’ultima data una nuova “festa della liberazione” che rischia di far passare in secondo piano la vera festa della Liberazione. Del resto, potevamo aspettarcelo. Dopo un anno di pandemia descritta con l’armamentario – e il termine è quanto mai appropriato – della retorica bellica, il paragone tra aperture e Liberazione ne è la logica conseguenza. Nemico invisibile, avversario da sconfiggere, prima linea, eroi, ospedali da campo, bollettini giornalieri dal fronte, coprifuoco: una narrazione – come ogni narrazione – non priva di conseguenze. Anche questa è scelta politica.

È vero che l’eccezionalità della situazione che viviamo e la conseguente necessaria mobilitazione del Paese favoriscono la tendenza a usare quei termini, indubbiamente efficaci nel far recepire alla comunità il livello di “allerta” – appunto – ritenuto opportuno in relazione all’andamento del virus. Intendiamoci: alcune conseguenze della pandemia hanno davvero molte affinità con gli effetti devastanti di una guerra. Penso alle “macerie” dei tanti lutti e di una crisi economica e lavorativa, pagata a caro prezzo da alcuni settori. Tuttavia, non mi convince la facilità con la quale molti, in vista del 25 aprile, paragonano la Resistenza all’atteggiamento che siamo chiamati ad avere di fronte al virus. La rappresentazione dell’epidemia come di una guerra rischia di essere ingannevole.

Il virus – con buona pace di tutti i complottismi negazionisti – non è una dittatura come non lo è il cancro o l’infarto. Qualche DPCM restrittivo dei nostri movimenti non è la perdita della libertà di pensiero, di espressione, di partecipazione, di fede, di associazione. Pur con tutti i suoi limiti e, a volte, con qualche contraddizione, la democrazia che la Resistenza ha donato al nostro Paese ha una sua solidità, è entrata nel nostro modo di pensare le relazioni, ha stabilito nella Carta costituzionale alcuni principi fondamentali che continuano ad avere la forza di sostenere la costruzione dell’intera nazione. Ma non illudiamoci: questi beni di cui godiamo da decenni non sono affatto acquisiti una volta per sempre. Devono essere difesi con una Resistenza continua e attenta a custodire la sovranità popolare non solo con il principio di rappresentanza (quella vera, non quella sondaggistica) ma anche con una attiva vigilanza, che si esprime nella partecipazione, sulle istituzioni e su coloro che ci rappresentano. Una Resistenza pluralista perché capace di tenere insieme visioni diverse che possono, oggi come nell’immediato dopoguerra, riconoscersi nell’essenzialità dei principi fondamentali della Carta. Il nemico al quale resistere – e forse qui la retorica bellica non è inopportuna – è tutto ciò che è “anticostituzionale”; è l’esasperazione di un concetto di libertà che di fatto finisce per negarla fino ad imporre la dittatura del più forte, dell’individualismo, del denaro, del consumo, del mercato senza regole.

La vera libertà, quella per la quale uomini e donne hanno dato la vita, è sempre finalizzata al bene comune, che – come ci ricorda Papa Francesco nella Laudato si’ (nn. 157-158) – “presuppone il rispetto della persona umana in quanto tale, con diritti fondamentali e inalienabili ordinati al suo sviluppo integrale”; bene comune che “nelle condizioni attuali della società mondiale … si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione preferenziale per i più poveri”.

È questa la libertà per la quale siamo stati liberati e che ci rende forti, capaci di affrontare qualsiasi pandemia.

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