7 anni di Papa Francesco

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Come è cambiato il volto della Chiesa nel mondo da quel 13 marzo 2013?
Qual è il messaggio dell’azione riformatrice di Bergoglio?

Sembra un tempo lontano quel 13 marzo 2013, l’alba di una nuova fase del cammino della Chiesa, pellegrina verso il Regno, con l’elezione al soglio pontificio di Jorge Mario Bergoglio, il papa venuto dalla fine del mondo. Sette lunghi e intensi anni che stanno trasformando la realtà ecclesiale rendendola sempre più vicina al suo scopo, la testimonianza alle genti della lieta novella, la morte e resurrezione di Gesù Cristo per la salvezza dell’umanità.

Il 7 è un numero considerato di pienezza, perfezione e perdono per l’Antico e per il Nuovo Testamento, e sono tutte caratteristiche riconducibili a questo amato pontefice, che con i suoi modi di fare semplici e spesso diretti ha marcato dei punti in grado di cambiare il ruolo della Chiesa nel mondo ma anche al suo stesso interno. Francesco è un papa sorprendente, che accende molte curiosità; la sua azione di riforma a tutto campo tocca molti temi che rivestono un carattere di novità.

Bergoglio ha affrontato questi anni di pontificato attraverso una logica organica di un’azione riformatrice tesa ad accompagnare la Chiesa nel terzo millennio. Il punto di partenza è il clima di fine pontificato di Benedetto XVI che influenza il confronto tra i cardinali prima del conclave e da cui emergono abbastanza chiaramente le esigenze di riforma. Un percorso di profonda spiritualità e ritorno alle radici evangeliche che sono i cardini dell’azione magisteriale e pastorale di Francesco: dal diverso modo di interpretare il papato alla riforma della curia; dalle implicazioni sociali dell’annuncio del Vangelo alla conversione pastorale con al centro la misericordia e la forte ripresa del cammino ecumenico e interreligioso. Prima di giungere al suo termine e interrogarsi sul futuro della riforma, il “racconto” ci parla anche degli oppositori del cambiamento e non tralascia di attraversare la dolorosa pagina dell’abuso sui minori. Prendendo come icona il discorso di Paolo VI a chiusura del Vaticano II (nella sua cifra cristocentrica, che ricapitolava le due grandi prospettive: da Dio all’uomo; dall’uomo a Dio), si possono vedere riflessi in esso i due ultimi pontificati, quello di Benedetto XVI e quello di Francesco.

La globalizzazione neo-liberale ha portato a un capillare innervamento del post-ideologico/post-moderno, come nichilismo volgare diffuso. Ecco la risposta di Benedetto XVI: da Dio all’uomo. Recuperare un primato dell’amore di Dio, cioè della Parola, dell’Eucaristia e della contemplazione. Necessità di una pastorale kerygmatica: caritas in veritate. Si può parlare di opzione-Benedetto.

Ma la globalizzazione neoliberale ha significato anche l’avvento della cultura dello scarto (di cui i migranti sono vittime sacrificali), il fragilizzarsi di ogni legame sociale disinteressato (a cominciare da quello matrimoniale), la distruzione dell’ambiente, il disprezzo per i poveri e l’impoverimento di larghi strati popolari, con un polarizzarsi della ricchezza, la crisi della solidarietà e delle politiche di Welfare, il trionfo del materialismo pratico (soldi, sesso, successo). Ecco la risposta di Francesco: la Chiesa povera per i poveri, in una prospettiva sociale di ecologia integrale, un’ortoprassi evangelica kerygmatica, cammini di misericordia pastorale, la verità nella carità.

E la soluzione cristiana al cambiamento d’epoca, anche nei suoi drammatici tratti disumanizzanti, non è mai pessimista, rancorosa e rigida, ma sempre nel segno della francescana “perfetta letizia”. Dice il papa: «Legata a questo difficile processo storico, c’è sempre la tentazione di ripiegarsi sul passato (anche usando formulazioni nuove), perché più rassicurante, conosciuto e, sicuramente, meno conflittuale. Anche questo, però, fa parte del processo e del rischio di avviare cambiamenti significativi.

Qui occorre mettere in guardia dalla tentazione di assumere l’atteggiamento della rigidità. La rigidità che nasce dalla paura del cambiamento e finisce per disseminare di paletti e di ostacoli il terreno del bene comune, facendolo diventare un campo minato di incomunicabilità e di odio. Ricordiamo sempre che dietro ogni rigidità giace qualche squilibrio». Si può parlare di opzione-Francesco.

Ecco allora, in sintesi, la via che si delinea: un’opzione benedettino-francescana. Ma il senso evangelico dell’opus benedettina e della letizia francescana non sta forse in quella gioia che Paolo VI indicò nella Gaudete in Domino e che Bergoglio ha ripreso nella programmatica Evangelii Gaudium? L’indirizzo kenotico indicato nella lettera di Paolo ai Filippesi (2, 6-11), in cui al fondo dell’opzione benedettino-francescana c’è un’opzione paolina: ovvero il radicamento in Cristo.

Luca Rolandi

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