Quale integrazione tra ospedale e territorio?
Sanità locale. Parliamo di “strutture di prossimità per la promozione della salute”. Lo facciamo con tre medici che operano a Tortona: Mario Dealessi, Silvio Roldi e Nicoletta Vivaldi
Alla luce delle criticità emerse nel corso della pandemia e in relazione alle nuove “strutture di prossimità per la promozione della salute” che anche le recenti disposizioni normative (comma 4 bis dell’art 1 del decreto legge 34/2020 convertito dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, recante: «Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”) prevedono e delle quali finanziano la sperimentazione, abbiamo rivolto alcune domande sul tema a tre medici: Mario Dealessi, medico ospedaliero e primario di Medicina interna e Pronto soccorso all’ospedale di Tortona (che già avevamo intervistato a fine aprile); Silvio Roldi, medico di Medicina generale a Tortona e Nicoletta Vivaldi, direttore sanitario di una Rsa.
Secondo la sua esperienza, precedente a quella generata dalla pandemia e alla luce di quest’ultima, le “strutture di prossimità per la promozione della salute” (case della comunità, della salute, ecc.) potrebbero rappresentare un’efficace soluzione per realizzare un’autentica integrazione tra sanità ospedaliera e sanità territoriale?
Mario Dealessi: «È innegabile che nell’ultimo decennio si è assistito ad un ridimensionamento importante del personale medico ed infermieristico a causa dell’imbuto agli accessi alle varie Facoltà e, soprattutto, alle Scuole di Specialità. Pertanto siamo davanti ad una progressiva riduzione di suddetto personale e, con l’attuale ondata di pensionamenti, le varie strutture ospedaliere sono entrate in evidente sofferenza. Il periodo pandemico ha ovviamente acuito tale problematiche rendendo necessario un enorme sforzo collegiale e solidale per rispondere alle richieste di salute.
Fatta questa premessa e con la forte speranza di far rivivere l’ospedale di Tortona almeno dei servizi essenziali necessari alla città ed al territorio, si sono studiate delle formule alternative che permettano di utilizzare al meglio le risorse della sanità pubblica coinvolgendo in una sinergia concreta personale ospedaliero e del territorio.
Una direzione che ha già visto i primi timidi passi con la collaborazione delle strutture dislocate in vari centri della provincia con l’unificazione di studi medici e personale dedicato in una unica sede in modo da garantire un risparmio di risorse.
Progetti a più ampio respiro vorrebbero convogliare all’interno degli ospedali oppure in sedi extra-moenia una partecipazione collegiale di varie figure professionali: medici ospedalieri, di famiglia, specialisti di varia estrazione e con differente collocazione amministrativa. Progetti già avviati sperimentalmente in alcune regioni italiane e con risultati altalenanti ma che necessitano di un giudizio più approfondito dopo l’ampliamento di tale esperienza».
Silvio Roldi: «Il processo di integrazione tra ospedale e territorio è ormai dalle nostre parti una realtà ben consolidata. A cementare ulteriormente questo processo è stata proprio la pandemia del marzo 2020. Infatti, era necessario fornire a livello domiciliare un sistema organizzativo (Progetto “Covid a casa” della Regione Piemonte) tale da facilitare la presa in cura dei malati al loro domicilio da parte del medico di famiglia e dei suoi collaboratori (medici USCA; infermieri delle cure domiciliari, volontari) con vie preferenziali e sicure per eventuali accessi in ospedale per la diagnostica radiologica, liberando in tal modo posti letto in ospedale che venivano lasciati ai malati più gravi. Per quanto riguarda le case della salute, io dico sempre che sono come degli scatoloni vuoti: dipende con che cosa le si vuol riempire. Se in questa “casa” il medico di famiglia troverà colleghi ospedalieri, infermieri di famiglia, assistenti sociali e del personale amministrativo, probabilmente riuscirà a risolvere parte dei bisogni di salute (e non solo) di tante persone, soprattutto anziane. Per quanto riguarda la nostra città, penso che sia l’ora di avere a Tortona un piccolo ospedale di comunità di 4 letti, tipo Progetto “Picasso” di Ovada, in cui il medico di famiglia possa ricoverare persone anziane o sole affette da malattie acute, in attesa che migliorino le loro condizioni cliniche. Sarebbe cosa buona e giusta e realizzabile con costi contenuti».
Nicoletta Vivaldi: «Forse l’implemento di strutture assistenziali di prossimità contenuto nella legge 77 del luglio 2020 potrebbe far superare le criticità ospedale-territorio. Dico forse perché si rifà alle case della salute del 2007 che solo in modo difforme e disomogeneo si sono realizzate sul territorio nazionale anche se dove attivate hanno portato ad un netto calo delle ospedalizzazioni.
Oggi sicuramente dovrebbero adeguarsi all’evoluzione tecnologica e della situazione demografica, si dovrebbe chiarire quali professionalità inserirvi ma soprattutto dovrebbe esserci un modello unico chiaro nazionale a cui attenersi.
Un modello a cui ispirarsi è difficile da individuare. Mi piacerebbe che questi punti salute fossero di circoscrizione, che ci fossero anche nelle comunità agricole e montane, con poca burocrazia, meno interlocutori, con figure di fiducia capaci di un rapporto diretto con il cittadino per farlo sentire meno solo e quando necessario lo monitorino anche a domicilio. Ricordiamoci che il cittadino va in ansia salute di sera e nei festivi quindi massima disponibilità di servizio: poche figure ma sempre raggiungibili.
Aggiungo che il divario temporale con cui si vuole realizzare il progetto telemedicina e il nuovo modello di ADI non farà altro che accentuare percorsi paralleli che invece dovrebbero essere complementari. Inutile dire che indispensabili sono figure infermieristiche con profilo di care manager e MMG con formazione e rapporto di lavoro innovativi».
Le vicende che hanno interessato Tortona, il suo ospedale e il suo territorio negli ultimi anni e nella recente emergenza sono emblematiche delle criticità di un sistema sanitario locale che pare un pachiderma ferito e moribondo. Secondo lei, c’è un modello – dal partenariato pubblico-privato alla casa di comunità – cui ispirarsi per risollevare, in tutto o in parte, le sue sorti a vantaggio dei cittadini?
Mario Dealessi: «Sono a conoscenza di progetti abbozzati ma mai portati a compimento. La stessa Azienda Sanitaria locale, l’Amministrazione comunale e le varie forze politiche che si occupano di sanità non hanno mai precluso interessi in questa direzione purché sostenibili ed in armonia con un programma di accessibilità a tutta la popolazione; proprio perché l’interesse precipuo di una azienda sanitaria è la salvaguardia della richiesta di salute di tutti quanti ed ogni proposta è pertanto benvenuta purché collocata in modo razionale e funzionale nel contesto in cui si trova la singola realtà.
Occorre anche dire che la situazione di emergenza recente, nonostante l’esiguità di personale e difficoltà ambientali, ha visto uno sforzo eccezionale delle risorse umane e delle strutture dedicate; sforzo che ha permesso di fare fronte a tutto il fabbisogno di cura ed assistenza non solo della popolazione locale ma anche di territori adiacenti in estrema difficoltà. Da questa esperienza si può ripartire con fiducia e dare risposte concrete di efficienza e di funzionalità».
Silvio Roldi: «Non ho nulla contro il partenariato pubblico-privato alla casa di comunità o altro in sanità. Come medico di famiglia, convenzionato con il Sistema Sanitario Nazionale, mi sono sempre occupato di sanità pubblica e solo marginalmente di sanità privata. La mia personale esperienza con la sanità privata, soprattutto lombarda, mi ha lasciato perplesso. È un mondo a parte, per me ancora tutto da scoprire. Per contro, la nostra popolazione è anziana, acciaccata ed emerge il bisogno di avere un ospedale degno di questo nome (non certo per le professionalità che abbiamo ma per i mezzi che occorrono) o di una casa di comunità efficiente. Se la sanità privata ci aiuta ad avere tutto questo, vorrà dire che andrò a fare uno stage dal dottor Perla, perché, come mi diceva sempre Irma, la mia anziana ma saggia suocera, “putost che nient l’è mei putost”!».
Cesare Raviolo