A che gioco giochiamo?

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di Silvia Malaspina

Il Natale si è ripreso con gli interessi la compulsione allo shopping, mortificata dalle restrizioni anti Covid dello scorso anno: com’è giusto che sia, i bambini sono stati i primi destinatari degli acquisti natalizi. Che il latore sia Gesù Bambino, Babbo Natale, S. Lucia o S. Nicola, i più piccoli attendono con ansia i pacchi regalo, mentre gli adulti si beano nell’udire i loro gridolini di gioia e vedere gli occhietti sprizzanti sorpresa e felicità.

Nel variegato panorama degli articoli per l’infanzia si è registrata una novità assoluta: i giochi senza distinzione di genere. Sappiate che, se avete regalato bambole, principesse, aspirapolvere, cucine-giocattolo alle bambine e costruzioni, giochi creativi e interattivi, supereroi, armi e mezzi di trasporto ai maschietti, siete non solo obsoleti, ma anche potenzialmente pericolosi per la loro futura libera espressione.

Marie Moïse, ricercatrice in Filosofia politica presso le Università di Padova e Tolosa, spiega: «Il gioco è un veicolo di crescita attraverso il quale i bambini spesso assorbono quello che viene definito “binarismo di genere”, cioè la percezione che esistano due generi contrapposti e complementari». Sembrerebbe quindi che gli stereotipi di genere vengano assorbiti dai bambini fin dalla più tenera età, motivo per il quale abbiamo assistito a una vera e propria mobilitazione per un “Natale gender neutral”, con molti Vip che esibiscono trionfalmente i figli maschi vestiti da principessa Disney. Anche l’e-commerce si è adeguato: Amazon ha proposto i giochi suddivisi per fasce di età e non per genere.

Nulla di nuovo sotto la neve: ricordo che mia figlia a due anni chiese in regalo «la toto», cioè la moto a pile e in simultanea la cucina giocattolo: venne accontentata e nessuno di noi si pose il problema di etichettare questa sua scelta come bipolare, meno che mai ci assalì il dubbio se stessimo crescendo una creatura “fluida”, che scorrazzava felice sulla moto e poco dopo fingeva di preparare il risotto.

Più indietro nel tempo posso testimoniare che, insieme all’amica del cuore, giocavo alla parrucchiera: il cliente prediletto era il fratello minore di questa. Il malcapitato veniva acconciato e truccato fino a trasformarlo in una drag queen in miniatura, eppure è divenuto adulto senza traumi psicologici o dismorfie di genere.

Non sarebbe meglio quindi provare a non etichettare e definire ogni cosa, svincolando i più piccoli dalle nostre forzature? Ho l’impressione che questa smania di voler eliminare le categorie, in realtà ottenga l’effetto opposto e incaselli ogni aspetto della nostra vita. La mia generazione non sapeva cosa fosse il “gender neutral”: ci limitavamo a giocare, sguinzagliando la fantasia, mentre nessun adulto anatomizzava i nostri comportamenti. Siamo cresciuti liberi, felici e tendenzialmente equilibrati: potremo dire la stessa cosa dei bambini di oggi?

silviamalaspina@libero.it

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