Timorasso. Qualche ipotesi sul nome dell’uva tortonese

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Esclusiva. Giuseppe Polimeni e Thomas Hohnerlein-Buchinger hanno condotto per i lettori del Popolo una prima, inedita ricerca sull’etimologia di un vitigno che è stato riscoperto e tornato di moda. Perché «i nomi delle uve custodiscono i segreti di un territorio e di una comunità»

di Giuseppe Polimeni*

e Thomas Hohnerlein-Buchinger**

I nomi delle uve custodiscono i segreti di un territorio, di una comunità che parla una lingua e conosce i luoghi, i tempi della terra.

Chi osserva i nomi delle uve comprende nel profondo gli usi e le pratiche economiche di una regione.

Alcuni nomi sono facili da decifrare, perché descrivono una caratteristica dell’uva. Altri nomi non sono “parlanti”.

Provate per esempio a immaginare da cosa deriva il ligure schiacchetrà.

Lo ha scoperto Alfredo Stussi, docente di Storia della lingua italiana alla Scuola Normale di Pisa: in un saggio famoso ha dimostrato che il nome «rimanda all’univerbazione, già osservata da Stussi nel 1962, di due parole dialettali: sciacca (= schiaccia, pigia) e tra’ (= trai, spilla dalla botte)», come ha scritto di recente Vittorio Coletti.

Prendiamo ora la strada delle nostre colline per ritrovare il tortonese e alessandrino timorasso (anche morasso, timuassa, muassa, come ricordano gli studi ampelografici).

Alle varie etimologie di timorasso, l’uva che, su impulso di un gruppo eroico di alcuni viticultori tortonesi (guidati da Walter Massa: www.timorasso.it), è stata recuperata e portata sulle tavole d’Italia e del mondo, oggi è forse possibile portare qualche nuovo tassello.

Proviamo a tornare indietro fino al Duecento. Tra i poeti italiani Bonvesin de la Riva propone un modello di vita morale nei suoi testi volgari, che rappresentano una delle prove di poesia più riuscite sul finire del secolo, prima di Dante.

Nel volgare De elymosinis, riportato dal codice berlinese, compare il termine temorezo e spunta in una sequenza di aggettivi (con stavre, vergonzoso), che dicono le virtù dell’uomo generoso, contrapposti tra l’altro a bold, squitizoso, van, giavaldo, parole che esprimono la spavalderia e la superbia vanesia di chi non si cura degli altri.

Gli studiosi della lingua di Bonvesin (Carlo Salvioni a inizio Novecento e, più di recente, Fabio Marri) spiegano la voce come derivata da una possibile base latina timor o forse dalla base ricostruita *timilus per timidus. Recentemente Marco Maggiore ha proposto la parafrasi “timorato”.

Temorezo avrebbe perciò il significato di “modesto, docile”, “timorato” appunto, esprimendo una qualità dell’uomo virtuoso e religioso. La parola sarebbe diffusa in territorio lombardo e padano, arrivando a toccare l’area ladina.

Quindi timorasso potrebbe essere voce affine, in contesto linguistico in cui è pure attivo il rotacismo (/l/ > /r/), se derivata dalla stessa base.

Il suffisso -asso potrebbe essere esito del suffisso lat. -ACEUS > it. –accio> it. sett. –asso, suffisso che, come nota Gerhard Rohlfs, può avere una funzione attenuante (milanese pienáš “pienotto”, verdáš “verdacchio”, ümidáš “umidiccio”).

E se timorasso fosse allora un nome che esprime una “qualità morale” dell’uva?

Resta da definire a quale qualità si riferisca l’aggettivo, che diventa nome del vitigno.

In primo luogo, possiamo ipotizzare di trovarci di fronte a una forma analoga a cortese, aggettivo che diventa nome ed è attestato nella forma dialettale curteis.

La qualità di uva “docile” e “rispettosa” sembra coincidere con alcuni aspetti della descrizione ampelografica fornita da Pietro Paolo Demaria e Carlo Leardi nel 1875: «L’uva ha sapore semplice, dolce, piacente, non privo di sale; resiste assai bene all’umidità autunnale e si conserva non poco tempo staccata dalla pianta. È ricca di mosto. Ottiensene vino limpido, brillante, con leggerissima tinta ambrata, sottile, leggiero, mediocremente alcoolico. Matura presto ed ha breve durata. È adatto a vini da pasto comuni, specialmente incolori. Migliora unendosi ai trebbiani, al cortese o ad altre uve che gli possano dare forza e durata».

Insomma, un’uva gentile, docile, mai superba e vanitosa.

Una seconda possibilità suggerisce di attribuire la qualità morale espressa dal nome alla gemma; si tratterebbe cioè di una gemmazione tardiva e quindi “timida”, “timorata”.

Leggiamo il Demaria-Leardi: «Gemma. – Saliente, grossa, tumida, di forma conica, alquanto schiacciata, con squama alla base di colore rossastro. Sboccia tardivamente ed il giovine pampino è liscio e di colore verde pallido».

La sbocciatura tardiva potrebbe essere perciò la ragione di un nome che riconosce una certa timidezza al vitigno, per altro definito dai due studiosi dell’Ottocento come resistente e forte.

Il timorasso sarebbe allora un “timidone”, che mette fuori le gemme un po’ più tardi, ma è resistente e forte, capace di produrre un buon mosto.

Questa seconda proposta, basata sulla descrizione di Demaria-Leardi, non incontra l’osservazione della realtà attuale della vite: il timorasso è oggi, secondo le indicazioni dei viticultori (ringraziamo Walter Massa per questa informazione), un vitigno a gemmazione precoce. In questo caso è possibile che qualche altro vitigno abbia preso il nome da un timorasso che è caduto in oblio o che è scomparso (non sarebbe il primo caso e andrebbe a confermare quanto scrive Roberto Marro nel saggio Breve storia del Timorasso: indagine sulle tracce di un antico vitigno a bacca bianca piemontese posto in appendice a Luigi Cataldi, Manualetto popolare del viticultore, dedicato specialmente ai viticultori delle colline tortonesi) oppure il cambiamento nelle caratteristiche è dovuto a un cambiamento climatico o a un diverso innesto posteriore alla fillossera.

L’indagine etimologica non può spiegare questo passaggio; resta di riferimento per la ricerca linguistica il lavoro di descrizione ampelografica di Demaria-Leardi.

Proprio dal lavoro dei due studiosi dell’Ottocento si desume un’ulteriore possibilità di spiegazione del nome timorasso, legata alla qualità del vino: il vino «matura presto e ha breve durata», ma «migliora unendosi ai trebbiani, al cortese o ad altre uve che gli possano dare forza e durata», cioè da solo è timido e se ne va subito, mentre assume forza e durata se mescolato ad altri vini.

Un’ulteriore possibile spiegazione della base etimologica potrebbe venire da un’indicazione che si desume dalle indicazioni fornite dal sito www.timorasso.it (consultato in data 9 luglio 2022), dove si legge: «La produttività del Timorasso è decisamente incostante, in compenso è abbastanza resistente alle malattie e agli eventi atmosferici. La sua vigoria vegetativa è inferiore alla media delle uve bianche». Il nome timorasso potrebbe quindi alludere alle caratteristiche di un vitigno che non è costante nella produttività e ha una vigoria vegetativa meno spiccata di altre uve bianche.

Ci auguriamo che queste quattro ipotesi, con altre proposte che faremo in sede scientifica, possano essere tasselli aggiunti al mosaico dell’origine del nostro timorasso.

Saranno utili e preziose le indicazioni che verranno dai viticultori, alla cui esperienza è necessario rifarsi per comprendere la storia e quindi l’etimologia.

In attesa che affiorino altri documenti storici, il nome resta perciò la più antica testimonianza della vita storica di un vitigno antico, ma tuttora vivo nell’economia delle nostre colline.

*Università degli Studi di Milano – Centro di studi “Ugo Rozzo” – Tortona
**Lessico Etimologico Italiano – Saarbrücken

Nota unica finale:
Gli autori ringraziano coloro che fin dall’inizio hanno condiviso questa prima ricerca, e tra questi in particolare Giorgio Gatti, direttore del Centro di Studi “Ugo Rozzo”. Sono grati a Walter Massa e a Gian Paolo Repetto, presidente del Consorzio Colli Tortonesi, per i suggerimenti bibliografici e per le fondamentali indicazioni sulle caratteristiche dell’uva e del vino timorasso.
Sulla nominazione dei vitigni e sulle qualità morali espresse da alcuni nomi è di riferimento il volume Thomas Hohnerlein-Buchinger, Per un sublessico vitivinicolo. La storia materiale e linguistica di alcuni nomi di viti e vini italiani (Tübingen, 1996). Per le qualità del vitigno e dell’uva si rimanda all’Ampelografia della Provincia di Alessandria di Pietro Paolo Demaria e Carlo Leardi (Torino, 1875). Fondamentale è stata la consultazione della ristampa anastatica del volume di Luigi Cataldi, Manualetto popolare del viticultore, dedicato specialmente ai viticultori delle colline tortonesi, Genova, Tipografia della Gioventù, 1898 (ristampa Torino, Edizioni del Capricorno, 2020), e in particolare il saggio di Roberto Marro, Breve storia del Timorasso: indagine sulle tracce di un antico vitigno a bacca bianca piemontese.

La parola a Walter Massa

«Il vino è: un mondo nel mondo»

Codesta affermazione può sembrare ovvia, superficiale, di moda, di… parte, invece: no, è molto profonda.

Per argomentare le mie certezze, mi permetto di dire che tutte le leggi dell’economia, piacciano o no a economisti di destra o di sinistra, nel “sistema wine”… non valgono.

Walter Massa

Ringrazio linguisti, semantici, filologi per mettere la loro professionalità a disposizione del “sistema vino”, coscientemente, con accezione più ampia, aggiungo del “sistema Italia”.

Il vostro lavoro è utile per saperne di più, per incuriosire e coinvolgere in questa magica avventura pure gli astemi, i (pseudo)salutisti, i sedicenti ambientalisti, quelli che fanno (giustamente) ciò che gli prescrive il medico, ma, il “sistema vino”, grazie all’opera di tutta la filiera, non lo ferma più nessuno. Siamo troppo lanciati dalla grandezza comunicativa e ludica del “wine”.

Io penso che vi siano due scuole, quella dei grandi (Ricasoli, Cavour) di chiamare il frutto fermentato di un’uva in un determinato territorio con il nome di una località o di una area (Barolo, Chianti, ecc.); poi esiste la scuola (a mio avviso) ignobile di chiamare il vino con il nome dell’uva che lo genera; poi… la terza via per la quale non mi concentro nemmeno a pensare a un aggettivo che per quanto negativo, mai renderà giustizia all’altrettanto ignobile essere che da spudorato ha tentato di cambiare l’assonanza, la suadenza del nome croatina nell’improponibile nome per la quale questa nostra magica uva è conosciuta.

Scusate se ho aperto il libro sulla più diffusa uva dell’Oltrepò, ma l’ho fatto per aver certezza, meglio speranza, di essere inteso.

Con lo stesso impeto avrei potuto usare metafore riguardo cannonau, nero d’avola, tokai, sangiovese.

Parlando di timorasso, io confido il tutto nella sua genetica e nell’interazione con il suolo delle colline dietro Tortona ricco di zolfo, litio, calcio, manganese.

Confido nella storia, che è stata fatta da contadini etici e non da cialtroni che cercando di farla franca hanno preso scorciatoie che hanno per lustri confuso ciò che hanno di cervello gli imbottigliatori, comunicatori, mezzigiornalisti, direttori di consorzi, politicanti di paese, ma non hanno interagito con chi il vino lo conosce, lo ama, lo beve e ne gode.

Il timorasso è un’uva, l’uva è la mamma, Derthona è il territorio, il territorio è il babbo.

I bambini prendono il nome del babbo.

Timorasso e Derthona anche nella vendemmia 2022 genereranno un bimbo, ossia un vino che si chiamerà Derthona..

L’importante non è il nome del bambino, è come porterà ’sto nome per tutta la sua vita, rispettando il cognome.

L’obbiettivo non è essere il migliore del cortile, ma con dignità essere cittadino del mondo, inducendo attenzione turistica al territorio che lo ha generato.

Walter Massa

“…la solita strada bianca come il sale,

il grano da crescere, i campi da arare;

guardare ogni giorno se piove o c’è il sole,

per saper se domani si vive o si muore, e…”

Luigi Tenco, Sanremo 1967

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