L’appiattimento dell’*
di Maria Pia e Gianni Mussini
Tempo fa ci aveva stupito ricevere da una nostra amica universitaria una email collettiva che iniziava letteralmente: “Car* tutt*”.
Poi, sotto Natale, ecco altre email, stavolta da militanti cattolici. Una comincia: “Carissim*”; l’altra: “Car* tutt*”; al che una partecipante alla mailing-list risponde: “Car* tutt*. Un grazie innanzitutto per il linguaggio inclusivo”…
Linguaggio inclusivo. Basta, help, si salvi chi può!
In realtà l’amica di cui sopra ci ha spiegato di avere ricevuto – nell’ambiente di lavoro – raccomandazioni in questo senso, alle quali ormai si è abituata applicandole anche quando scrive agli amici. Ovvio: il mezzo è il messaggio, come diceva sin dal 1964 il padre della comunicazione Marshall McLuhan nel suo fondamentale Capire i media. Ma ora il mezzo è giunto a trasformare il destinatario del messaggio: così entusiasticamente accolti, gli asterischi rischiano infatti di impadronirsi delle menti confuse che li usano. Perché la forma non è mai neutrale ma condiziona intimamente il contenuto e ce lo impone sino a farci diventare altro da quello che siamo: degli asterischi.
L’aveva intuito George Orwell, l’autore del profetico 1984, l’utopia negativa di un mondo dominato da un Grande fratello (da cui il noto programma TV) che tutto vede, sorveglia, controlla. Per opprimere più pervasivamente i cittadini, impone una Neolingua poverissima, incapace di esprimere sfumature e sentimenti. Il linguaggio del conformismo, dell’appiattimento, della paura.
Al contrario, più una lingua è ricca, più lo sono – intellettualmente e spiritualmente – le persone che la usano.
Ma la lingua, dicono i sapienti del politicamente corretto, deve essere “inclusiva”, non discriminare tra maschi, femmine e l’universo LGBT+ usando per questo anche la schwa ovvero il segno fonetico ə: un suono a metà strada tra le vocali esistenti.
È comunque un errore. Beninteso, la valorizzazione – anche grammaticale – dell’altro è sempre un arricchimento. E bene ha fatto per esempio la Chiesa a modificare il Confiteor con la dicitura: “a voi fratelli e sorelle”, nel rispetto delle donne e della bellezza della bella lingua italiana. Tuttavia, dai poeti delle Origini in poi, la nostra lingua ci ha messo secoli per giungere all’attuale forma di espressione vagliata dall’uso: una forma che dunque ha delle precise motivazioni storiche e non ha perciò bisogno di maldestre e ineleganti forzature.
Che poi, alla fine, conta il cuore con cui si parla. Da che mondo è mondo, un professore che si rivolge ai suoi “ragazzi”, non pensa certo di discriminare le studentesse, le quali d’altra parte non se ne sono mai lamentate. Certo, se lo fa per iscritto, dirà opportunamente: “Care ragazze e cari ragazzi”.
Sì, prima il gentil sesso, o vogliamo abolire la cavalleria?
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