Torniamo a parlare del Classico

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di Maria Pia e Gianni Mussini

Del liceo Classico ha già parlato, il 9 febbraio scorso, il nostro direttore. Ma torniamo volentieri sul tema: dopo tutto siamo degli addetti ai lavori, avendo entrambi frequentato quella scuola, dove Gianni ha anche insegnato a lungo.

Il direttore afferma che il Classico offre un “valore aggiunto” poiché fornisce una “chiave di interpretazione della realtà” e addirittura indica “le strade giuste per progettare il domani” (parola di Roberto Vecchioni).

Con l’ovvia premessa che ogni scuola può essere buona, se conforme alle attitudini di ciascuno, e che l’importante è farla bene, ecco dunque anche le nostre considerazioni.

Talvolta il Classico – ammettiamolo – è stato vissuto come una opzione snob, riservata ai sedicenti “migliori” e magari buona come serbatoio di citazioni in lingua (a volte anche un po’ trombonesche). Ma la vera cultura non serve a questo; essa è intimamente democratica e accogliente. E chi la esercita deve sempre essere attento al prossimo. Altro limite del Classico è favorire una certa attitudine all’astrazione (la “testa per aria”).

È però anche vero che proprio tale attitudine spiega uno dei punti forti di questa scuola: proprio la capacità di astrazione, il vedere “ciò che non si vede”, le idee. L’economista Francesco Giavazzi cita il caso di Wim Bishoff, già capo di Shroders, una delle più importanti banche di Londra, cioè del mondo. Volendo assumere un giovane, egli pescava tra i laureati in Lettere classiche e poi in Matematica; e se proprio non li trovava, si rassegnava a prenderne uno uscito dalla London School of Economics. Come mai? Sentiamolo: «Li invito a colazione ed espongo loro i problemi della banca. I classici e i matematici… non hanno idea di che cosa si stia parlando; ma ogni tanto il loro modo di vedere le cose è talmente inusuale che improvvisamente capisco come risolvere un problema fino a quel momento senza vie d’uscita».

Gli studi classici lasciano poi nello studente un vero deposito di sapienza. Comprese quelle materie che appaiono oggi più peregrine: «Gli antichi Greci avevano già capito tutto», ripeteva un professore nostro amico (ecco a che servono Omero, Sofocle, Platone e compagni: a capire…).

Un deposito di sapienza reso possibile da un meccanismo molto semplice: al Classico si studiano relativamente poche materie, e ciascuna “entra” nell’altra approfondendola e venendone a sua volta approfondita (l’Italiano con il Latino, il Greco, la Storia e la Filosofia, l’Arte… E viceversa). E Dio sa se non ci sia bisogno di profondità, più che di saperi polverizzati.

Ultima cosa, ma non la meno importante: il Classico impone una continua, persino ossessiva, riflessione sulla lingua, sulla parola: un potente rimedio contro superficialità e approssimazione.

Dopo tutto, “In principio era il Verbo”, ci ha suggerito uno che se ne intendeva.

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