Halloween? La vita e la morte non sono la stessa cosa

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1 e 2 novembre: il ricordo di tutti i santi e dei nostri cari defunti oggi passa spesso in secondo piano, sostituito da una festa che viene dalla cultura anglo-americana. Un fenomeno che, come ci spiega Adriano Fabris, professore di Filosofia morale e di Etica, non è solo consumistico

Il bene contro il male, la bellezza della santità contro la bruttezza della morte. Fino a qualche decennio fa, nell’immaginario collettivo, i primi due giorni di novembre erano indissolubilmente legati per ricordare tutti i santi, coloro che avevano saputo camminare alla sequela di Cristo fino in fondo, e coloro che ci hanno preceduto nella vita eterna, i nostri cari.

Da un po’ di tempo, soprattutto per i più piccoli, la notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre è caratterizzata dalla festa di Halloween, con zucche, streghe, mostri, zombie. Ma cosa c’è dietro? Solo un aspetto consumistico o si nasconde altro? Ne parliamo con Adriano Fabris, professore di Filosofia morale e di Etica della Comunicazione all’Università di Pisa.

Perché per i bambini di oggi in questi giorni ricordano più Halloween che la festa dei Santi? «Ci troviamo a far passare anche a livello di mentalità comune, di educazione, di trasmissione ai nostri bambini, eredi della tradizione cristiana, un modello davvero diverso da quello che veniva proposto in passato. Nella festa di Tutti i Santi si ponevano in evidenza persone esemplari, che avevano vissuto in maniera coerente e rigorosa il loro credo e le loro idee, fino, in molti casi, alla testimonianza assoluta. Erano dei modelli positivi, ma soprattutto era anche l’occasione di mettere assieme e di collegare a questa dimensione il giorno successivo, il ricordo delle nostre persone care che non c’erano più. La memoria dei morti era collegata alla celebrazione, il giorno prima, della santità: i due aspetti erano messi assieme, quasi come pensare che anche le nostre persone care erano e sono un punto di riferimento esemplare, mettevamo così in evidenza le loro caratteristiche buone, quanto avevano contato per noi. La festa era l’occasione di un ricordo, del tramandamento di una tradizione, anche al di là della dimensione della fede».

Che cosa è cambiato? «Viviamo in un’epoca ormai secolarizzata, in un’epoca di indifferenza nei confronti della dimensione religiosa, in un’epoca in cui un certo lessico presente nella nostra cultura non viene più riconosciuto né tramandato. Anche i valori dell’esemplarità, del ricordo, del riconoscimento, del ringraziamento per questi modelli di vita sono stati messi da parte, insieme ad altri aspetti da cui si è ritenuto necessario liberarsi perché collegati a una tradizione religiosa considerata ormai sorpassata o rispetto a cui c’era indifferenza. È un errore ritenere che rigettando specifiche tradizioni religiose tutto questo comporti anche il rigetto di tanti aspetti della nostra tradizione sociale e civile, perché alla fine non ci resta nulla: rimane solo ciò che vale economicamente, commercialmente, rimangono miti che sono introdotti a freddo nella società, che si impongono perché sono una sorta di carnevale per i bambini, perché producono business, perché ci si costruisce intorno un mondo, che interviene nell’immaginario collettivo».

E qual è l’immaginario che viene veicolato attraverso Halloween? «È una tradizione che viene dall’altra parte dell’Oceano ed è veicolata attraverso film, serie televisive, cartoni animati che provengono da una cultura di stampo anglo-americano e che ormai da decenni circola in maniera egemone nelle nostre case. Quindi è anche abbastanza facile far passare tutta una serie di questioni e di valori che appartengono solo in parte alla nostra tradizione».

Quali sono questi valori? «Io li riassumerei nel fatto che si può scherzare anche con i morti, che la morte viene esorcizzata e dunque non fa più paura perché viene depotenziata, resa quasi normale, non è riconosciuta più come tale, viene ridotta allo scheletrino o alla streghetta. Se viene depotenziato ciò che per l’essere umano è il vero segno del suo limite, della sua tragedia, questo è il punto, non c’è più bisogno di redimere l’essere umano da questo male, da questa sua profonda finitezza, da questa sua caratteristica di mortalità. Se la morte diventa lo scheletrino, dolcetto o scherzetto, la streghetta, non va più presa sul serio, è qualcosa su cui si può scherzare. Una volta si diceva: “Scherza con i fanti e lascia stare i santi”. Adesso, è esattamente il contrario».

Il passaggio successivo qual è? «Se davvero sono normalizzate e depotenziate, la cattiveria, la morte, la negatività diventano indifferenti, rispetto ad esse possiamo non prendere posizione, possiamo non combatterle, possiamo non considerare il male qualcosa da rigettare. Questo è un altro passaggio della nostra cultura. Se tu sei malvagio, basta che non tocchi la mia vita più di tanto e io te lo lascio fare perché ognuno è libero di fare quello che vuole. Del male restiamo spettatori, magari riprendiamo con il telefonino una scena di violenza, ma non interveniamo. Halloween rientra in questa mentalità di uniformazione del bene e del male, secondo cui non sono altro che opinioni diverse: lo scheletrino non ci fa più paura, il male e la morte sono esorcizzati, quindi non dobbiamo più impegnarci per creare una società buona, una società giusta. Dal punto di vista spirituale, dato che siamo finiti, siamo mortali e la morte non la possiamo combattere, dovremmo aprirci a una dimensione ulteriore che ci salva, che ci redime. Ma se il male è normalizzato e la morte è ridotta allo scheletrino che non fa paura noi non abbiamo più bisogno di redenzione».

Si può fare ancora il percorso inverso dalla “bruttezza della morte”, proposta da Halloween, alla bellezza dei Santi? «Non ho una soluzione, ma posso presentare due passaggi. Il primo è ricostituire le differenze in questa situazione di indifferenza, renderci conto che le differenze ci sono e sono reali. Mi spiego meglio: siamo in una società davvero paradossale, in cui vige la mentalità per cui ciascuno ha specificità e differenze che rivendica e per le quali pretende il diritto di espressione e manifestazione di ogni differenza anche la più banale. La nostra differenza rispetto agli altri è rimarcata nella nostra società. Ma, al tempo stesso, queste differenze omologano perché tutti siamo differenti e quindi tutti siamo uguali, nel rivendicare ognuno le proprie differenze. Questo è il paradosso della nostra società. L’invito è a non banalizzare le differenze etiche come, purtroppo, sta avvenendo: il bene e il male non stanno sullo stesso piano, la vita e la morte non stanno sullo stesso piano. Quindi, primo, recuperare le differenze e, secondo, più in positivo, riconoscere le persone che incarnano il bene, la bontà dei modelli e degli esempi che ci hanno lasciato. Persone che hanno saputo scegliere il bene, incarnandolo, testimoniandolo, portandolo fino in fondo. Non faccio solo un discorso di tipo religioso, non parlo solo dei santi, ma anche di quelle persone che a livello sociale, civile sono state e sono esempi e che ricordiamo in festività non solo religiose, ma anche in quelle civili. Credo che senza questi esempi, una comunità non possa esistere. Solo una comunità che sa riconoscere cos’è il bene rispetto a cos’è il male si può istituire effettivamente come tale».

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