Più occupati ma a quale prezzo?

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di Cesare Raviolo

In Italia il mercato del lavoro è in salute. Così sembrerebbe stando ai dati dell’Istat di recente pubblicazione che riferiscono di 456 mila occupati in più nel corso del 2023 per un totale di 23 milioni e 754 mila di persone con un lavoro e un tasso di occupazione del 61,9%. La crescita degli occupati, che su base annua sfiora il 2%, ha interessato i lavoratori a tempo indeterminato (+460 mila, di cui 418 mila subordinati e 42 mila autonomi), mentre è diminuito quello dei tempi determinati (5 mila). Il “boom” dell’occupazione ha dell’incredibile anche perché è avvenuto in un contesto di debole aumento del Pil (+0,7% nel 2023) e ha interessato per più del 90% il lavoro dipendente a tempo indeterminato. La crescita occupazionale non è certo dipesa da nuove e innovative politiche del lavoro: nel 2023, infatti, la legislazione in materia è rimasta invariata con la conferma della riduzione del cuneo fiscale introdotta l’anno precedente dal Governo Draghi. Altre, dunque, le ragioni dell’exploit dell’occupazione, ragioni che mettono in luce come, in realtà, la situazione sia meno felice di quanto non appaia a prima vista e che sono da ricercarsi nella ridotta crescita dei salari. Tra il 2021 e il 2023, l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (Ipca), comunemente usato nei contratti di lavoro, è aumentato rispettivamente dell’8,7 e del 5,9% a fronte di un aumento dei salari del 3% in ciascun anno del biennio. I conti sono presto fatti: i prezzi sono cresciuti di circa il 15% e le retribuzioni di circa il 6% e, dunque, i salari reali (e il potere d’acquisto) sono diminuiti di quasi il 9%. Ne è derivata una diminuzione del costo del lavoro in termini reali di poco meno del 10%, che ha favorito l’aumento della domanda di lavoro espressa dalle imprese, che è funzione inversa del tasso di variazione dei salari. Non solo, gli aumenti del costo del denaro che, a seguito della politica antinflazionistica della Bce (Banca Centrale Europea), è salito dall’1 a quasi il 5%, ha ridotto, con ogni probabilità, la propensione delle imprese a investire in capitale fisso (impianti e macchinari) più costoso e a sostituirlo con un maggior ricorso al fattore lavoro decisamente più a buon mercato. Non a caso, nel 2023, gli investimenti fissi lordi sono cresciuti solo del 6%. Dunque, se è doveroso rallegrarsi per la crescita dell’occupazione è altrettanto doveroso ricordare che il prezzo dell’inflazione di questi anni è stato pagato dalle retribuzioni dei lavoratori e che, se la tendenza in atto dovesse proseguire ancora, non è da escludere in futuro un aumento dei “lavoratori poveri” che, già oggi, rappresentano più del 12% del totale.

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