C’era una volta la zecca di Tortona

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All’indomani della festa di Santa Croce, della fiera e dei commerci ad essa collegati, ripercorriamo i tempi in cui la città, da sempre sede della Diocesi, rivestiva un’importanza economica tale da arrivare a battere moneta

DI DON MAURIZIO CERIANI

La festa patronale cittadina di Santa Croce a Tortona – che abbiamo appena vissuto – inizialmente solo religiosa, col passare del tempo si rivestì anche di connotazioni fieristiche e commerciali, legate all’importanza economica della città e alla sua posizione di nodo strategico lungo le vie del commercio, che univano la pianura padana ai porti liguri. L’importanza economica di Tortona fece sì che la città potesse addirittura battere moneta e avesse una propria zecca, di cui ancora oggi resta una sbiadita memoria nella toponomastica della via che scorre ai piedi del convento dei Cappuccini, denominata appunto “via della zecca”. Ripercorriamo alcuni momenti significativi del periodo in cui Tortona poteva vantare lo “jus monetandi”.

Tortona stipula una convenzione monetaria

Un tentativo di riforma monetaria nella tarda età comunale volto ad armonizzare le emissioni delle zecche dell’area lombarda, fu raggiunto con la Convenzione monetaria del 1254, di cui si conserva memoria nel “Registrum Magnum” del Comune di Piacenza. L’accordo fu stipulato fra i Comuni di Bergamo, Brescia, Cremona, Parma, Pavia, Piacenza e Tortona allo scopo di uniformare la circolazione monetaria nei territori di competenza delle città firmatarie. Nel testo della convenzione vengono fissate le caratteristiche delle monete. La convenzione venne firmata “Die lune septimo exeunte madio, millesimo ducentesimo quinquagesimo quarto”, quindi a inizio giugno 1254, in una camera privata del comune di Piacenza; per la città di Tortona furono firmatari, come ambasciatori plenipotenziari, Goffredo di Arquata e Lorenzo di Pulvino, mentre nel documento la nostra città è indicata con il nome di “Detronae”. La convenzione stabiliva anche che venissero coniati tre valori: il “denaro grosso”, del valore di quattro denari imperiali, il “denaro mezzano”, del valore di mezzo denaro imperiale, e infine la “medaglia”, pari a un quarto di denaro imperiale. Alle città che lo avessero voluto era data anche la facoltà di coniare un quarto valore, il “denaro parvus” del valore di un terzo di denaro imperiale. La stella a sei punte, che doveva comparire su entrambe le facce delle monete, era il simbolo dell’appartenenza alla convenzione da parte delle città firmatarie. A noi sono giunti solo “denari grossi” tortonesi, che riportano il conio di due stelle su entrambe le facce, mentre monete di altre città legate dalla convenzione, ad esempio Bergamo e Brescia, ne riportano una soltanto. Di fatto la convenzione del 1254 è un’antica forma di moneta comune che nasce dopo aver constatato i gravi problemi creati nel mercato da emissioni sempre meno affidabili: le città firmatarie concludono un trattato in cui si impegnano a creare una nuova moneta comune, il grosso d’argento, e a condurre insieme una lotta alla cattiva monetazione, garantendo peso, lega e titolo.

Il diritto di battere moneta Il diritto di battere moneta, l’ambitissimo “jus monetandi”, fu concesso ai tortonesi per la prima volta nel dicembre 1248 da Federico II di Hohenstaufen ed emanato nella città di Vercelli dove l’imperatore soggiornava. Secondo Ugo Rozzo, che ha approfondito la tematica in uno studio pubblicato nel 1980, le prime monete uscite dalla zecca cittadina furono dei “denari grossi imperiali”, coniati tra il 1249 ed il 1250, con la scritta “TERDONA” al dritto, attorno al digramma imperiale “FR”, che stava appunto per Federico. Dopo quelle prime emissioni, la zecca avrebbe coniato altri “denari grossi”, che i numismatici indicano come “minori”, a motivo del peso più basso rispetto a quello delle precedenti emissioni; queste monete andrebbero collocate tra il 1251 e il 1253 e sono contraddistinte da due cerchietti ai lati superiori della croce patente sul rovescio del conio, da cui l’appellativo di monete con la “O croxata”. Secondo Giorgio Fea, apprezzato storico della monetazione italiana, l’emissione del “grosso minore” tortonese – battuto subito dopo la morte di Federico II, avvenuta il 13 dicembre 1250, quando la scomparsa dell’imperatore, principale alleato della città, andò a sommarsi alla pesante sconfitta subita pochi mesi prima dall’esercito tortonese ad opera delle milizie milanesi e alessandrine – è indicativo di una crisi economica cittadina. Il fatto che Tortona sia stata invitata ad aderire al trattato del 1254, nonostante la sua zecca fosse di recente istituzione (solo sei anni prima), indicherebbe quindi non solo l’importanza commerciale della città. S’intravvedeva anche il rischio che la zecca tortonese, coniando valori non in linea con altre emissioni e comunque di facile diffusione, contribuisse a quella disarmonia monetaria che si desiderava eliminare il più possibile.

Le monete tortonesi continuarono a essere coniate e ad avere larga circolazione almeno fino alla metà del secolo XIV.

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