Vale di più il silenzio ma non ditelo

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Il mio professore di Storia della Lingua Italiana mi ha insegnato che un libro, soprattutto un romanzo, si giudica per ciò che racconta e anche per ciò che non racconta. Cioè per ciò che l’autore sceglie di mettere dentro la storia e di omettere. I punti di vista sono due: in presenza e in assenza. Ben presto iniziai a leggere pensando a quanto fosse faticoso il lavoro del narratore, alla grandezza delle sue scelte, al coraggio che doveva avere non solo di includere nozioni e idee (questo è scontato), ma, soprattutto, di escludere il banale, il superfluo, il superlativo. Di colpo, davanti agli occhi, mi parve di vedere un mondo invisibile che aveva la stessa importanza del mondo visibile eppure custodiva qualcosa di più intelligente, più definitivo, al punto che, se fosse venuto a galla, avrebbe perso il suo fascino e il suo significato. Lentamente mi sono convinto che la parte “in assenza” valga addirittura di più dell’altra. E oggi, in un momento in cui si parla troppo, si pone in risalto ogni cosa, si dà spazio alla volgarità, si è spudorati, si mettono in piazza le emozioni, si squaderna la propria esistenza, si sdogana l’apparenza, si vive sui social, ci si fotografa nel salotto di casa, si insulta chi non la pensa come noi, si fa politica su FaceBook, si denunciano “manine” occulte e non si guarda negli occhi il proprio interlocutore, diventa un valore non esserci. Stare in silenzio. Dare peso alle parole. Diventano straordinari un abbraccio, una stretta di mano, una lettera, un sorriso… se sono autentici. Sembra un paradosso perché l’era del digitale ci invita ad uscire dal bozzolo, a comunicare, a fare. È come se avessimo molti più mezzi per esprimerci e invece ci rendiamo conto che è meglio risparmiarci. Centellinare. Andare in profondità. Recuperare il senso. Siamo immersi in un frullatore che alimenta la confusione. Non ci capiamo. Utilizziamo una neo lingua che va in cortocircuito. Ecco, ve lo volevo dire. Anche se, forse, sarebbe stato meglio tacere.

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