Olimpiadi tra luci e ombre

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Di Ariann Ferrari e Andrea Rovati

LEI

Sono giorni di Olimpiadi e anche se non seguo lo sport, mi affascinano. Al di là del cattivo gusto della cerimonia di apertura, mi piacciono perché posso vedere qualcosa di diverso dal calcio. Mi entusiasma la ginnastica artistica di cui credo di capirne qualcosa avendola praticata nell’infanzia e l’atletica leggera con una particolare predilezione per le discipline veloci. I salti, i 100 metri e i lanci. Belli anche il nuoto, i tuffi e il tiro con l’arco. Insomma, quegli sport che vedi solo qui. Mi piace osservare gli atleti che per me sono campioni a prescindere dai risultati. Penso a loro come a persone che passano i giorni tra allenamenti, sfide per battere i loro record, fatiche, fragilità fatte di ansie, paure ed emozioni sicuramente intense. Cerco di immedesimarmi e mi dico che tutto il lavoro fatto per essere lì si gioca poi in una manciata di minuti o addirittura secondi. Se va bene che grande gioia, ma se quel giorno va male che fatica farci i conti. Alle Olimpiadi di Tokio mi colpì molto Simone Biles, una delle migliori ginnaste della storia. Si ritirò in corsa dopo aver raccolto il suo peggior punteggio al volteggio. La spiegazione è che non riusciva più a reggere il peso della prestazione. Questa debolezza vista nella potenza dell’atleta mi fece tenerezza. Guardiamo lo spettacolo olimpico ma tutti coloro che scendono in gara non sono punteggi o numeri, sono persone. Ora Simone Biles è tornata a Parigi. “Gamba”, come si dice in gergo ginnico, ho fatto il tifo per te.

arifer.77@libero.it

LUI

Ogni volta ci arrivo con scetticismo, saturo di calcio (e quest’anno c’erano pure gli Europei). Però poi l’atmosfera olimpica finisce col contagiarmi, durante il giorno sbircio di nascosto i risultati del nuoto e la sera faccio finta di dormire sul divano per non cambiare canale e guadagnare ancora qualche minuto di scherma. Luci, ma anche ombre e non poche. Le Olimpiadi dovrebbero essere un momento di pace ma suonano come una beffa in un mondo che pare scoppiare in mille guerre. Preteso momento di inclusione (una delle parole totem di oggi), gli organizzatori decidono loro chi includere per escludere altri: della blasfema ultima cena LGBTQ+ che dileggia ciò in cui crediamo si è lamentato pure Erdogan, pensate un po’ come stiamo messi. Teorica occasione di riconciliazione anche con la propria storia, ma poi arriva Maria Antonietta che canta con la sua testa decapitata: macabra celebrazione di ciò che fu davvero la Rivoluzione, cioè il Terrore. Geniale l’intuizione del Barone de Coubertin: lo spirito di Olimpia, lo sport come valore universale che unisce tutti. Geniale ma anche miope, tutto proteso a confidare nell’uomo e destinato alla fine a trasformarsi nel suo contrario: come a Berlino nel ’36, chi vince celebra se stesso e usa i Giochi come clava da dare in testa agli avversari. Il più lucido risulta ancora Geremia, che non fa altro che constatare la realtà: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il suo sostegno e il cui cuore si allontana dal Signore” (17,5).

andrea.rovati.broni@gmail.com

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