Abitare è vivere. Dipende da noi

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Com’è cambiata, oggi, la nostra idea di casa? Fino a pochi decenni fa era ben altra la cura che si aveva per gli spazi condivisi, mentre gli eventi naturali straordinari sono diventati ordinari

DI PIERANGELA FIORANI

Dove abiti? Dove vivi? Capita spesso di chiederlo o di sentirselo chiedere al primo incontro con una persona fino a quel momento sconosciuta e con la quale si intende instaurare un minino di rapporti. Abitare è vivere ci spiegano gli antropologi che ci aiutano a interrogare il nostro mondo. Abitare è vivere e non avere più un luogo chiamato casa è interrompere drammaticamente le nostre esperienze di vita. Basta vedere le immagini che arrivano dalle zone di guerra, dall’Ucraina e dai territori del Medio Oriente quotidianamente colpiti da bombardamenti: palazzi e città distrutti, casette e giardini devastati, uomini, donne e soprattutto bambini che vagano tra le macerie in cerca dei loro cari e delle loro cose, di un indizio da portarsi dietro in quella nuova dimensione che è priva a quel punto del “vivere”. Soprattutto colpisce il dramma dei bambini perché quell’esperienza resterà sempre conficcata come una spada che sanguina, fa male nella loro testa e nel loro cuore.

Abitare è vivere. Dover partire non per una vacanza, né per un viaggio di piacere, è dire addio al tutto o a una parte di se stessi. Lo sanno i migranti costretti a lasciare, anche nella più tenera età, il loro rifugio, si tratti anche di una capanna di rami e di foglie, di un anfratto nel deserto o di una baracca nelle periferie più disastrate. Il viaggio sospende un’esistenza, qualunque essa sia stata fin lì. Partire è rischioso ma necessario ed è morire alla vita pur impossibile che ci si lascia alle spalle. È, per fortuna, anche speranza di una nuova casa, un nuovo abitare, di una nuova vita. A cui non tutti riescono ad arrivare. E per la quale le tribolazioni non sono finite anche quando ce la si fa ad approdare a nuovi, sconosciuti lidi.

Abitare e vivere è sempre più difficile anche per chi, per studiare, per mettere su famiglia cerca casa nelle nostre città. È vivere o non poter più vivere per gli affitti diventati proibitivi. Problema che riguarda paesi e città ed è eclatante a Milano. Da lì arrivano dati che spaventano. Un operaio con uno stipendio annuo di circa 17 mila euro potrebbe permettersi un appartamento di 12 metri quadri, praticamente un box, nel centro storico della metropoli lombarda, 17 metri quadri nelle zone semicentrali e 30 metri quadri nel resto della città. Un impiegato con un reddito annuo di circa 29 mila euro potrebbe comprare un appartamento di 16 metri quadri nel centro storico, 23 metri quadri nelle zone semicentrali e 40 metri quadri nel resto della città. Proviamo a spingere lo sguardo oltre i freddi numeri e capiremo che rappresentano molto chiaramente una situazione ben più che difficile per molte persone che, come tutti, hanno il diritto di abitare, dunque di vivere in una casa degna di questo nome. I prezzi per gli studenti sono ancora più alti. Appare un bel segnale, importante, da trasformare in realtà praticata, quello di possibili coabitazioni di anziani (sempre di più e sempre più soli anche in case troppo grandi per loro) e giovani che vengono a studiare in città lontane dai loro luoghi di origine. Coabitare e far incontrare persone di diversa età ed esperienze vorrebbe dire vivere più pienamente una vita che si è svuotata e offrire fiducia a chi inizia a riempire di significati il proprio cammino.

C’è un’altra declinazione da dare con urgenza al tema dell’abitare-vivere. Provo a dirlo così: abitare non è solo vivere, ma anche far vivere, tenere vivo. Riguarda il nostro rapporto tra i luoghi che abitiamo e il pericolo che essi corrono insieme a noi. La riflessione – per quel che mi riguarda– non nasce solo in questi giorni e settimane di prime abbondanti piogge d’autunno con straripamenti di torrenti, rogge e canali asciutti fino a qualche ora prima dei disastri, con terreni che franano sulle case, con acqua e fango che travolgono abitazioni e persone in fuga o intrappolate là senza il tempo di trovare una via di salvezza. Alle distruzioni, ai lutti seguono le accuse, le polemiche per gli aiuti preventivi invocati a ogni evento naturale straordinario che sembra essere diventato ormai ordinario per come si ripete, identico a se stesso, a intervalli sempre più ravvicinati. Comuni, Governo regionale, Governo centrale sono chiamati in causa: tutti – si dice – sono poco solleciti o troppo legati a ingarbugliate burocrazie che impediscono di agire con prontezza per togliere ostacoli, rinforzare difese, evitare con politiche attente la distruzione dell’ambiente. Giusto chiedere attenzione e interventi opportuni e il più possibile preventivi. Ma c’è dell’altro da dire. Mi capita di pensarlo anche quando, muovendomi a piedi tra campi coltivati, o in auto da un paese all’altro e su per le nostre colline, vedo fossi ingombri di erbacce e bordi di strade invasi da rifiuti. Non molto tempo fa, parlo di pochi decenni, era ben altra la cura che ognuno di noi aveva per gli spazi condivisi, a cominciare dal condominio, dalle vie di città appena fuori dal proprio portone. Nessuno si chiedeva a chi toccasse, ma tanti – in particolare nelle aree rurali – erano impegnati a tenere puliti canali e canaletti, a sgombrare rive e contorni dei campi da disordinata vegetazione. Il tutto senza obblighi, con generale attenzione al bene comune. La natura sapeva essere matrigna anche allora, anche se il clima era meno compromesso dagli insensati interventi umani che con protervia si sono intensificati nel tempo, ma tanti piccoli e pur impegnativi accorgimenti cercavano di tenere a bada ciò che poteva creare pericoli all’ambiente e all’uomo. Le cose sono assai cambiate, il lavoro di cura degli ambienti– per parte sia privata sia pubblica – è andato scomparendo. Piccoli segnali virtuosi si notano qui e là dove anche tanti giovani scelgono di far rivivere aree interne e terre alte che soffrono lo spopolamento, dedicandosi all’agricoltura o all’allevamento. Ma una riflessione collettiva è necessaria e urgente se vogliamo che il nostro piccolo fragile mondo resti per noi casa, rifugio. E se vogliamo che abitare possa coincidere davvero con il vivere e il tenere vivo le persone e le cose che ci sono accanto.

pierangelafiorani@gmail.com

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