Netflix e Yara: solo dolore

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Di Ennio Chiodi

Una brutale incursione nel dolore e nell’angoscia di una famiglia. Va ben oltre il legittimo diritto di cronaca la diffusione di audio e registrazioni di colloqui privati nella docuserie di Netflix dedicata alla vicenda di Yara Gambirasio, la tredicenne uccisa, nel novembre del 2010, da Massimo Bossetti, condannato definitivamente all’ergastolo dopo lunghe indagini e un regolare iter processuale. I genitori di Yara, sempre dignitosi, discreti e rispettosi della giustizia, hanno presentato un esposto al Garante della privacy. Maura Panarese e Fulvio Gambirasio avevano limitato al minimo i loro interventi pubblici nel corso della lunga vicenda giudiziaria. Le loro voci si erano sentite pochissimo, fino all’uscita della docuserie che pubblica senza pudore le registrazioni di conversazioni privatissime e degli accorati messaggi lasciati sul cellulare della figlia scomparsa, nella disperata speranza che fosse ancora viva e in grado di ascoltarli: delicatissime e fragili emozioni, appelli rotti dal pianto, esplosioni di amore privato e profondo. Documenti mai utilizzati neppure nel corso dell’inchiesta e del processo, perché ritenuti ininfluenti, ma considerati evidentemente utilissimi ad accrescere il tasso di curiosa morbosità e di conseguenza gli ascolti della produzione di Netflix. Accanto alle voci del papà e della mamma di Yara, sottratte al loro personalissimo dolore, quella di colui che la giustizia italiana ha stabilito sia stato il suo carnefice, intervistato in carcere a supporto – sostengono diversi osservatori – di una tesi innocentista, replicata più volte anche da discutibilissimi post pubblicati in rete. Un processo al processo, come accade ormai abitualmente di questi tempi. «Bossetti è innocente» – ho sentito sostenere da giovanissimi che ai tempi di Yara non erano forse neppure nati: «l’ho sentito su Tik Tok»; «l’ho visto su Netflix». Succede quando, sempre più spesso, il vero diventa falso, e il falso si trasforma in vero. La spettacolarizzazione della giustizia e l’uso indiscriminato delle emozioni e dei sentimenti di vittime e colpevoli fa parte del racconto quotidiano dei media: confessioni in diretta agli inviati dei “talk”; registrazioni di strazianti colloqui in carcere tra genitori e figli; audio e video di interrogatori che passano prima dagli studi televisivi che dalle aule dei tribunali. Le responsabilità non sono riconducibili solo ad autori, giornalisti e conduttori, ma anche a chi favorisce la fuga di questi documenti dai luoghi dove dovrebbero essere conservati con attenzione. Il limite del diritto a informare e a essere informati è labile e sempre meno rispettato. Arduo attendersi che venga rispettata la dignità delle persone e la sacralità dei sentimenti.

enniochiodi@gmail.com

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