«Non esistono ragazzi cattivi»
È stato ospite, martedì 8 aprile, degli “Stati Generali degli Studenti” a Rivalta Scrivia: don Claudio Burgio, cappellano dell’Istituto minorile “Cesare Beccaria” di Milano, conosce bene i giovani e noi gli abbiamo chiesto dove stanno andando
DI DANIELA CATALANO
Martedì 8 aprile al Palazzetto dello Sport di Rivalta Scrivia, si sono svolti gli “Stati Generali degli Studenti”, promossi dalla Pastorale Giovanile, diretta da don Cristiano Orezzi, dalla Pastorale della Scuola e dal Movimento Studenti di Azione Cattolica (Msac). Ospite d’onore della manifestazione, che ha coinvolto centinaia di allievi degli istituti superiori della Diocesi, è stato don Claudio Burgio, cappellano dell’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano, fondatore e presidente dell’associazione “Kayros”, che dal 2000 gestisce comunità di accoglienza per minori e servizi educativi per adolescenti, accogliendo, attualmente, circa 50 ragazzi, tra i 14 e i 25 anni. Don Burgio, nato a Milano nel 1969, dopo gli studi classici, è entrato nel seminario della Diocesi ambrosiana e nel 1996 è stato ordinato sacerdote dal cardinale Carlo Maria Martini. Affianca all’attività pedagogica quella di relatore in molti incontri pubblici nei quali affronta temi sociali di attualità, spiritualità, educazione, famiglia, tossicodipendenza ed emarginazione giovanile. Appassionato musicista e compositore, nel 2007 è stato nominato direttore della Cappella musicale del Duomo di Milano, la più antica istituzione musicale della città, e ha ricoperto l’incarico fino al 2021. È anche autore di libri, tra cui Non esistono ragazzi cattivi (Edizioni Paoline) in cui ha raccontato i primi anni a fianco dei ragazzi del carcere e delle comunità. Noi lo abbiamo intervistato.
Dallo scorso autunno lei è diventato cappellano titolare del carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano, sostituendo don Gino Rigoldi, con cui collabora da anni. A questa attività affianca la direzione della comunità “Kayros”. Che cosa significa svolgere questi incarichi? Come è iniziato il suo percorso?
«Io sono presente all’interno del carcere minorile di Milano dal 2005 e in questi 20 anni sono diventato il vice di don Gino; quando lui ha voluto passare il testimone, è stato naturale l’avvicendamento, anche se la nostra collaborazione continua ancora. In questo periodo non è facile essere cappellano in un istituto di pena come il “Beccaria” dove, pur essendoci ragazzi cristiani che chiedono i sacramenti, la quasi totalità di detenuti è composta da musulmani, aspetto che rende la gestione del discorso religioso molto complessa. Il cappellano, però, resta una figura educativa a tutto tondo, perché può avviare un approccio interreligioso, un percorso di accompagnamento che, ispirandosi ai principi del Vangelo, diventa quotidianità, possibilità di aiuto per queste persone. In tal senso la comunità “Kayros” è il riflesso della mia attività dentro il carcere, perché offre la possibilità di dare un futuro ai ragazzi, favorendo, dove è possibile e con l’autorizzazione del magistrato, un percorso di inserimento nella società. Quindi, si parte da una presenza religiosa, ma si passa a una educazione integrale della persona che può essere anche di una religione diversa, ma è sempre accumunata a noi nella fratellanza universale. Proprio dopo l’apertura della mia comunità, mi è stato chiesto di collaborare con la realtà carceraria minorile e così è iniziato un cammino che non si è più interrotto e al quale tengo molto».
Uno dei suoi slogan più famosi è “non esistono ragazzi cattivi”. È vero che i giovani, oggi, vivono un disagio molto diverso dal passato?
«I ragazzi sono “cattivi”, nel senso etimologico latino del termine, sono cioè “schiavi” di una cultura che li usa e li getta, sono incattiviti ma non sono nati tali, perché ogni persona è creata bene da Dio e poi si deforma strada facendo e assume atteggiamenti negativi, soprattutto, a causa dell’ambiente che frequenta e delle situazioni che incontra nella vita. Per cui lo scopo di un cappellano, di un educatore, è proprio quello di rintracciare quel bene originario che appartiene a ogni ragazzo e dal quale è stato allontanato per mille motivi. È importante sapere che la cattiveria non è innata; talvolta è una maschera per reagire a una fragilità causata dall’assenza di una figura genitoriale, dal disagio tipico dell’adolescenza, aggravato da una quotidianità vissuta senza modelli di riferimento, tra malessere e sfiducia. Il bene, però, vince sempre sul male se a un ragazzo sono offerte opportunità concrete per rintracciare questo bene».
Come si può entrare in dialogo con i ragazzi e quanto è importante la figura dell’adulto che spesso sembra essere in crisi?
«Oggi l’autorità non è più ascoltata e si presenta semplicemente come un esercizio di comando, di potere. L’autorità che ottiene l’attenzione, invece, è quella che fa meno prediche, meno affermazioni, meno proclami sui valori convenzionali, a volte avvertiti come retorici dai ragazzi. L’adulto che crea un dialogo è una persona che sa entrare nelle loro storie, nel loro linguaggio, sa far breccia dentro la situazione che vivono, senza giudizio. Io uso spesso il termine greco “epoké”, che significa “sospensione del giudizio”. Noi siamo tentati di formare i ragazzi ai nostri valori, alle nostre abitudini, ma il mondo e la cultura attuali sono cambiati enormemente e, quindi, non sempre questi valori sono percepiti come credibili. Condizionati dalla cultura attuale, i ragazzi sono spesso molto disorientati rispetto a quello che noi affermiamo nella teoria. Credo sia fondamentale non pensare che i giovani dicano solo cose fuorvianti e sbagliate, ma occorre entrare nella loro cultura, per capire da vicino come vivono».
Esistono testimoni credibili e quali sono?
«Purtroppo i testimoni preferiti sono gli influencer e i social la fanno da padrone, almeno apparentemente. I ragazzi danno credito e ascoltano quello che vedono e sentono sui social. Devo dire, però, che ci sono persone che per loro sono più credibili di altre ovvero quelle che hanno qualcosa da dire sulla vita, come i nonni, o che sono figure interessanti, perché hanno una storia da comunicare. Insomma, i giovani hanno bisogno di persone che hanno vissuto un’esperienza autentica, capace di affascinarli e di trasmettere un messaggio positivo di speranza».
Ha ancora senso parlare di fede ai ragazzi?
«Forse i ragazzi fanno più fatica a capire quella che è la religione “tradizionale” ed è più difficile il rapporto con la Chiesa in quanto istituzione, ma le domande di fede ci sono ancora. C’è un analfabetismo religioso dilagante, nonostante tutti i percorsi catechistici e i nostri sforzi. Probabilmente i discorsi catechetici proposti non interessano più, anche se restano gli interrogativi che emergono e necessitano di risposte».
Il titolo del suo ultimo libro è molto significativo: Non vi guardo perché rischio di fidarmi. Quanto è importante la fiducia nel rapporto con i giovani?
«Il mio libro è ispirato a molte storie vere e il tema principale è proprio la fiducia, che considero il motore di un rapporto educativo, anche quando questa non è meritata. Ci sono alcuni racconti che identificano il concetto. Per esempio la storia di Daniel Zaccaro che è partito da reati come la rapina in banca, ha fatto un percorso molto complesso, finendo anche nel carcere dei maggiorenni. Quando è stato accompagnato e aiutato a essere consapevole, è riuscito a trovare la sua strada, grazie alla fiducia di chi ha creduto in lui e nelle sue potenzialità positive. Daniel si è poi laureato, è diventato educatore e ha cambiato vita. Ha anche raccontato la sua nuova vita in un libro intitolato Ero un bullo che sta portando in tutte le scuole italiane».
Che cosa ne pensa di iniziative come gli “Stati Generali degli Studenti” a cui ha partecipato la settimana scorsa nella nostra Diocesi?
«È una bellissima iniziativa perché bisogna dare spazio ai ragazzi e al loro protagonismo attivo e quindi l’idea di presentare i loro progetti e soprattutto la possibilità di presentarli davanti a chi governa le città è molto importante. Si tratterà, poi, di non far decadere le proposte, perché qualche progetto risulta essere poco realizzabile. Alcune idee sono molto belle, ma non tengono conto di alcuni fattori importanti. L’amministrazione pubblica può aiutare i giovani a capire meglio le regole per rendere fattibili alcune proposte e per questo sono convinto che il dialogo debba continuare».
Che augurio vuole rivolgere ai nostri giovani?
«Auguro loro di essere ragazzi che si prendono a cuore le storie di altri. Proprio Daniel, portando la sua testimonianza davanti a Papa Francesco, in occasione del Sinodo dei Giovani, ha detto una cosa, a mio avviso, molto vera e importante, cioè che nella fede, come nella vita, non si cresce se si sta sempre con chi ci assomiglia. Ecco, questo è un concetto fondamentale. Il cristianesimo, infatti, perché sia credibile, deve incontrare l’altro, colui che è diverso da te».