LA NOSTALGIA DI ALCIDE DE GASPERI

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Nel 2019 ricorrono 65 anni dalla morte dello statista che fu tra i primi ad iscriversi al Partito Popolare,

nato un secolo fa grazie a don Luigi Sturzo.

Mentre in Italia si parla tanto di Unione Europea, di uscita dall’euro, di leggi comuni,

la sua “lezione” europeista continua a fornire una risposta a numerosi interrogativi.

 

 

Uomo di fede e di Stato

Un uomo mite, equilibrato, la persona giusta al posto giusto nel momento esatto: il nocchiere del passaggio dal regime fascista alla democrazia repubblicana. Pacato nei gesti, misurato nell’eloquio, attento nei comportamenti. L’insieme delle scelte compiute da De Gasperi nella sua parabola politica sono profondamene radicate in una concezione cristiana della vita e in un confronto continuo con il pensiero sociale cattolico. Nato nel 1881 in un piccolo Comune della provincia di Trento come cittadino dell’Impero asburgico, De Gasperi sviluppa molto presto un interesse per la politica, che vive già come studente universitario e come giornalista, maturando posizioni proprie sul tema dell’identità nazionale e del rapporto del Trentino italiano con la struttura multinazionale e multietnica dell’Impero austroungarico. Gli studi storiografici da Scoppola a Pombeni, hanno messo in discussione l’immagine stereotipata del De Gasperi pragmatico, antiretorico, indifferente a qualsiasi dimensione teoretica, restituendocene invece una personalità ricca, vivace, capace di porsi sin dagli anni giovanili in modo comprensivo ed efficace nei confronti di una moderna azione e comunicazione politica nella incipiente società di massa.

La ricercata elaborazione di un’identità precipua dei cattolici trentini è stata uno dei tratti caratteristici di un De Gasperi che ha impiegato non poche risorse e ha mostrato doti non comuni sul piano dell’elaborazione ideologica, contendendo ai liberali e ai socialisti il consenso delle masse trentine. Gli anni giovanili sono stati determinanti anche sul terreno della costruzione di un’identità nazionale. Il trinomio “cattolici, italiani e democratici” rappresentava una prima formulazione dell’indissolubile nesso tra cattolicità e italianità, che affondava le radici nel paradigma neoguelfo dell’Italia “nazione cattolica” e che veniva arricchito di un elemento tutt’altro che scontato per il cattolicesimo del tempo, ossia la democraticità. È assai significativo che negli anni del contenzioso interno all’Opera dei congressi (l’organizzazione che riuniva i cattolici italiani) e dell’emersione in essa di prospettive democratiche, De Gasperi si avvicinasse alle posizioni di Romolo Murri e di Luigi Sturzo, nella convinzione che fosse ormai maturo il tempo per una visione politica democratica cristianamente ispirata. Vi è qui uno degli elementi decisivi della biografia degasperiana: l’idea che la democrazia affondasse le proprie radici nel cristianesimo, essendovi intrinsecamente legata. È una tesi proposta da molti, non da ultimo dal filosofo francese Henri Bergson (che De Gasperi richiamerà in un famoso discorso sulle basi morali della democrazia tenuto a Bruxelles il 20 novembre 1948), che si reggeva sostanzialmente sull’assioma “la democrazia o sarà cristiana o non sarà”.

Una concezione del tutto priva di un approccio confessionale e che si legava da una parte alla lettura dell’esperienza storica e sociale del cristianesimo, dall’altra a una dimensione spirituale profonda del futuro statista italiano. Decisamente importanti furono le prime esperienze nella Dieta asburgica, in un contesto multietnico e multinazionale piuttosto delicato. Fu un complesso e tortuoso percorso quello del leader trentino verso la maturazione di un europeismo che arriverà alla pienezza negli ultimissimi anni della sua vita. Attenzione alla questione dell’identità nazionale e alle dinamiche della società di massa, maturazione di una concezione democratica, assenza di un europeismo implicito e di innate prospettive federaliste europee sono fondamentali non solo per restituire la complessità della personalità degasperiana, ma anche per comprendere le esperienze maturate all’interno del Partito popolare fondato da Luigi Sturzo nel gennaio del 1919, nonché il rapporto conflittuale con il fascismo.

Nel ventennio fascista

Dell’alterità degasperiana all’ideologia fascista, del rifiuto della concezione totalitaria dello Stato, degli attriti con il regime che lo portarono non solo ad abbandonare la vita politica attiva (dopo lo scioglimento dei partiti nel 1926 e l’instaurazione del partito unico), ma a passare per l’esperienza del carcere, si conoscono i dettagli. Mentre una notevole parte della cultura cattolica si inseriva nel dibattito ideologico del regime con una battaglia condotta prevalentemente su posizioni antigentiliane, De Gasperi si rifugiava nel suo lavoro presso la Biblioteca vaticana, ritagliandosi uno spazio limitato, ma assai interessante, scrivendo di politica internazionale sull’Illustrazione vaticana. Un punto di osservazione privilegiato che tornerà utile negli anni del secondo dopoguerra. È invece meno sottolineato che il futuro statista italiano, con la sua acuta sensibilità politica, apprese molto dall’esperienza fascista, da venti anni di retorica nazionalista, di mobilitazione collettiva, di propaganda intesa come educazione e formazione delle masse a una specifica concezione ideologica della politica.

Seppure in subordine all’attività di governo, De Gasperi non ignorava né sottovalutava il ruolo del partito di massa come agente educatore, né la capitale importanza della dimensione ideologica nel conflitto politico. Già durante gli anni del regime fascista, aveva decisamente compreso l’importanza del mito politico, nel senso elaborato dal sindacalista rivoluzionario francese Georges Sorel (1847-1922), come strumento di mobilitazione delle masse.

La Democrazia Cristiana e la vocazione europeista

Con la fine del fascismo e il collasso dell’Italia come esito della Seconda guerra mondiale, De Gasperi assunse progressivamente un ruolo centrale sulla scena politica italiana, costruendo un partito di ispirazione cristiana che, pur recuperando la tradizione del Partito popolare, si presentava come un soggetto nuovo, teso alla costruzione di una democrazia italiana non semplicemente riconducibile all’assetto prefascista.

In questa direzione, l’impostazione degasperiana condusse a configurare la DC come “partito della nazione”, caratterizzato da due fondamentali elementi: da una parte il recupero del paradigma neoguelfo dell’Italia “nazione cattolica”, in virtù del quale la DC si presentava come la migliore espressione dell’anima della nazione; dall’altra il recupero di una tradizione risorgimentale che portava a mettere ai margini i conflitti tra cattolici e Stato unitario (con la valorizzazione dei primi moti risorgimentali in cui la partecipazione dei cattolici fu attiva) e interpretava le culture politiche risorgimentali – liberalismo, repubblicanesimo mazziniano e socialismo democratico – come derivanti da una medesima fonte, il cristianesimo. La DC si proponeva dunque come la migliore erede di queste culture politiche e una forza radicata tanto nell’anima quanto nella storia della nazione. Anche la vocazione europeista si iscriveva in questo orizzonte. Benché inizialmente assai cauto nel prospettare l’ipotesi di un’effettiva unificazione europea, De Gasperi maturò progressivamente un approccio più deciso verso la necessità di una unione dell’Europa occidentale. Questa maturazione passò anche attraverso il fallimento di un altro progetto.

Dopo aver realizzato l’adesione dell’Italia al Patto atlantico nell’aprile del 1949, il leader democristiano – utilizzando l’art. 2 del Trattato – spese molte energie per spingere le nazioni associate a costruire una vera e propria “comunità atlantica”, che superasse la dimensione puramente militare e si indirizzasse verso un pieno coordinamento nei settori sociali, economici, culturali, nonché politico-propagandistici. Il venir meno di questa prospettiva e l’acuirsi delle tensioni internazionali – basti l’esempio della guerra di Corea (1950-1953) – convinse gli Stati dell’Europa occidentale a dotarsi di strutture comuni che andassero oltre il settore economico del carbone e dell’acciaio. Con il progetto della Comunità europea di difesa, che imponeva un ragionamento comune in settori decisivi quali la sicurezza e la politica estera, si aprirono nuovi orizzonti ed emerse progressivamente l’ipotesi dell’unificazione politica. In questa partita De Gasperi giocò un ruolo cruciale, spingendo, attraverso l’art. 138 del Trattato della CED, per l’istituzione di un’Assemblea ad hoc chiamata a elaborare un progetto di unione politica. Nonostante le enormi difficoltà incontrate nella ratifica del trattato, che ne sancirono il fallimento, De Gasperi spese moltissime energie a favore della CED e dell’ideale unitario europeo sino agli ultimi giorni della sua vita.

A dispetto della sua indiscussa leadership, il leader trentino dovette affrontare molteplici sfide: a destra come a sinistra dello schieramento politico, all’interno come all’esterno della DC, e anche all’interno della Chiesa cattolica, dove le pressioni per la costruzione di un ampio fronte anticomunista coinvolgente anche forze non democratiche avevano trovato una certa consistenza; ne è esempio la cosiddetta “operazione Sturzo” del 1952, con la quale si puntava a coalizzare la DC con le forze monarchiche e neofasciste per le elezioni amministrative di Roma.

La difesa delle istituzioni liberali e democratico-rappresentative, la visione pienamente antitotalitaria della politica, l’ancoraggio all’Occidente nelle sue due direttive atlantica ed europea costituiscono senza dubbio il legato più significativo della sua leadership, profondamente radicata in una concezione cristiana della vita. Esiste un’ampia bibliografia, con qualche eccezione agiografica, ma resta soprattutto attuale la profezia degasperiana: una azione politica unita ad una visione integrale dell’uomo che interpretava la politica come una delle più alte forme di carità cristiana.

Luca Rolandi

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