Clausura: «Noi siamo una provocazione per il mondo»
Ogni tanto se ne parla: la clausura resta per alcuni una scelta di vita troppo radicale. Anzi, ha ancora senso oggi? Lo abbiamo chiesto a Madre Elena Francesca Beccaria, abbadessa del monastero di Santa Chiara a Roma dove siamo andati di persona. Dopo “Chi l’ha visto?”.
Non tutto il mondo le comprende; non tutto il popolo di Dio capisce le motivazioni che stanno alla base di una scelta di vita radicale: farsi monaca ed entrare in un convento di clausura. Anzi, c’è chi guarda con scetticismo a un’esistenza fatta “soltanto” di preghiera e di meditazione. Così, spesso, si ritorna sull’argomento, per esempio dopo che la trasmissione “Chi l’ha visto?” ha mandato in onda due servizi dall’esterno del monastero di Santa Chiara in via Vitellia a Roma. Cercavano Daniele, un ragazzo disabile scomparso misteriosamente il 10 giugno del 2015 nella capitale. A noi la segnalazione è parsa subito un po’ troppo costruita a tavolino. Così ci siamo andati di persona, proprio nel monastero romano dove, nel parlatorio, abbiamo incontrato Madre Elena Francesca Beccaria, l’abbadessa, che, tra l’altro, è originaria di Tortona. Il suo segreto, ci ha detto, è di «accettare di essere nulla, per non opporre la minima resistenza all’azione di Dio in noi, per il bene del mondo, con semplicità, gioia e coraggio».
Madre Elena, lei è a capo
di questo monastero dal 2013, dopo aver trascorso molti anni nel convento di Santa Lucia
a Città della Pieve.
In quante siete qui?
«In questi anni la comunità è cresciuta fino ad arrivare a 25 monache, di cui molte in giovane età».
Come si svolge
la vostra giornata?
«La giornata inizia con la sveglia alle 5.20 e alle 5.50 comincia la preghiera: fino alle 9 meno un quarto alterniamo preghiera liturgica, lodi, ufficio delle letture e messa e poi un’ora di preghiera personale. Al termine, dopo la colazione, ogni sorella inizia il suo ufficio. Ci sono uffici triennali e altri settimanali. La cucina per esempio è settimanale. Poi alle 12.30 ci fermiamo per andare a pregare all’ora di sesta. Pranziamo e ceniamo solo in silenzio, ascoltando una lettura spirituale oppure tratta dal magistero del Papa. Dopo pranzo c’è un po’ di tempo libero e alle 13.45 inizia il tempo di silenzio, perché il silenzio è la nostra regola di vita. Noi facciamo molta attenzione al silenzio. Alle 15, dopo l’ora nona, si riprende il lavoro. Normalmente ci si dedica allo studio, agli incontri comunitari, ai capitoli conventuali e alla formazione a Roma. Alle 17.30 si torna a pregare in Coro, con il rosario, i vespri e l’adorazione. Dopo cena c’è la ricreazione, in cui ci si racconta la giornata, si parla, si fa festa e a volte si gioca anche insieme. Alle 21.15 andiamo a recitare compieta e poi inizia il grande silenzio della notte che è il tempo di Dio. Durante la settimana due volte ci alziamo all’una e trenta per il mattutino».
In che modo dialogate
con il mondo esterno?
«Una volta al mese incontriamo un gruppo di laici durante le catechesi. Molti di loro vengono a pregare con noi ai vespri e si fermano per l’adorazione eucaristica».
Quale senso ha la clausura? Cosa può dire alla gente comune che non sempre comprende perché delle donne decidono di ritirarsi in una
realtà appartata?
«Il senso della clausura sta nel fatto che anche oggi ci siano delle giovani donne chiamate a viverla pur essendo la nostra una vita molto esigente rispetto a quella nel mondo. Nessuna giovane potrebbe sopravvivere se non avesse ricevuto una chiamata, una spinta che viene dall’alto. Vivere in poche centinaia di metri quadrati, dedicandosi alla preghiera, seguendo delle regole e una disciplina esigente non può essere possibile se non ci sono motivazioni molto profonde».
Quindi?
«Quindi la clausura ha senso perché le giovani la scelgono come risposta immediata alla loro ricerca. Credo davvero che serva molto anche alla società perché noi monache, con il nostro stile di vita diverso da quello che si vive fuori, siamo una vera e propria provocazione».
Si direbbe che voi il mondo lo sfidate…
«Nei monasteri c’è un rallentamento del tempo, scandito dalle ore liturgiche. Noi ci fermiamo sette volte al giorno per pregare. La regolarità del nostro ufficio divino mi ricorda i dossi nelle strade ad alta velocità, che hanno il compito di rallentare l’andatura. Pregare vuole dire ascoltare il Signore che ci chiede di fermarci. Il versetto del salmo 45 spiega bene quello che la nostra vita claustrale vuole dire al mondo: “Fermatevi e sappiate che io sono Dio”. C’è una priorità che il mondo non riconosce, ma che è imprescindibile. Nell’arco della nostra giornata il suono della campana che ci chiama in coro ci ricorda che dobbiamo interrompere quello che stiamo facendo perché il Signore ci reclama. Oggi, purtroppo, la cultura digitale educa a non avere pazienza, come si nota girando per le città».
Certo una città come Roma non aiuta molto a fermarsi.
Non tutto il mondo le comprende; non tutto il popolo di Dio capisce le motivazioni che stanno alla base di una scelta di vita radicale: farsi monaca ed entrare in un convento di clausura. Anzi, c’è chi guarda con scetticismo a un’esistenza fatta “soltanto” di preghiera e di meditazione. Così, spesso, si ritorna sull’argomento, per esempio dopo che la trasmissione “Chi l’ha visto?” ha mandato in onda due servizi dall’esterno del monastero di Santa Chiara in via Vitellia a Roma. Cercavano Daniele, un ragazzo disabile scomparso misteriosamente il 10 giugno del 2015 nella capitale. A noi la segnalazione è parsa subito un po’ troppo costruita a tavolino. Così ci siamo andati di persona, proprio nel monastero romano dove, nel parlatorio, abbiamo incontrato Madre Elena Francesca Beccaria, l’abbadessa, che, tra l’altro, è originaria di Tortona. Il suo segreto, ci ha detto, è di «accettare di essere nulla, per non opporre la minima resistenza all’azione di Dio in noi, per il bene del mondo, con semplicità, gioia e coraggio».
Madre Elena, lei è a capo di questo monastero dal 2013, dopo aver trascorso molti anni nel convento di Santa Lucia a Città della Pieve. In quante siete qui?
«In questi anni la comunità è cresciuta fino ad arrivare a 25 monache, di cui molte in giovane età».
Come si svolge la vostra giornata?
«La giornata inizia con la sveglia alle 5.20 e alle 5.50 comincia la preghiera: fino alle 9 meno un quarto alterniamo preghiera liturgica, lodi, ufficio delle letture e messa e poi un’ora di preghiera personale. Al termine, dopo la colazione, ogni sorella inizia il suo ufficio. Ci sono uffici triennali e altri settimanali. La cucina per esempio è settimanale. Poi alle 12.30 ci fermiamo per andare a pregare all’ora di sesta. Pranziamo e ceniamo solo in silenzio, ascoltando una lettura spirituale oppure tratta dal magistero del Papa. Dopo pranzo c’è un po’ di tempo libero e alle 13.45 inizia il tempo di silenzio, perché il silenzio è la nostra regola di vita. Noi facciamo molta attenzione al silenzio. Alle 15, dopo l’ora nona, si riprende il lavoro. Normalmente ci si dedica allo studio, agli incontri comunitari, ai capitoli conventuali e alla formazione a Roma. Alle 17.30 si torna a pregare in Coro, con il rosario, i vespri e l’adorazione. Dopo cena c’è la ricreazione, in cui ci si racconta la giornata, si parla, si fa festa e a volte si gioca anche insieme. Alle 21.15 andiamo a recitare compieta e poi inizia il grande silenzio della notte che è il tempo di Dio. Durante la settimana due volte ci alziamo all’una e trenta per il mattutino».
In che modo dialogate con il mondo esterno?
«Una volta al mese incontriamo un gruppo di laici durante le catechesi. Molti di loro vengono a pregare con noi ai vespri e si fermano per l’adorazione eucaristica».
Quale senso ha la clausura? Cosa può dire alla gente comune che non sempre comprende perché delle donne decidono di ritirarsi in una realtà appartata?
«Il senso della clausura sta nel fatto che anche oggi ci siano delle giovani donne chiamate a viverla pur essendo la nostra una vita molto esigente rispetto a quella nel mondo. Nessuna giovane potrebbe sopravvivere se non avesse ricevuto una chiamata, una spinta che viene dall’alto. Vivere in poche centinaia di metri quadrati, dedicandosi alla preghiera, seguendo delle regole e una disciplina esigente non può essere possibile se non ci sono motivazioni molto profonde».
Quindi?
«Quindi la clausura ha senso perché le giovani la scelgono come risposta immediata alla loro ricerca. Credo davvero che serva molto anche alla società perché noi monache, con il nostro stile di vita diverso da quello che si vive fuori, siamo una vera e propria provocazione».
Si direbbe che voi il mondo lo sfidate…
«Nei monasteri c’è un rallentamento del tempo, scandito dalle ore liturgiche. Noi ci fermiamo sette volte al giorno per pregare. La regolarità del nostro ufficio divino mi ricorda i dossi nelle strade ad alta velocità, che hanno il compito di rallentare l’andatura. Pregare vuole dire ascoltare il Signore che ci chiede di fermarci. Il versetto del salmo 45 spiega bene quello che la nostra vita claustrale vuole dire al mondo: “Fermatevi e sappiate che io sono Dio”. C’è una priorità che il mondo non riconosce, ma che è imprescindibile. Nell’arco della nostra giornata il suono della campana che ci chiama in coro ci ricorda che dobbiamo interrompere quello che stiamo facendo perché il Signore ci reclama. Oggi, purtroppo, la cultura digitale educa a non avere pazienza, come si nota girando per le città».
Certo una città come Roma non aiuta molto a fermarsi.
«A differenza di Città della Pieve dove tutto era proiettato in una dimensione verticale, verso il cielo, a Roma ho trovato una situazione molto diversa. Il monastero è sull’Olimpica, in una zona immersa nel traffico, dove il silenzio è molto difficile da trovare. Chi sceglie la vita contemplativa dovrebbe cercare un luogo molto silenzioso e, invece, proprio qui il Signore ha chiamato tante donne che hanno risposto con slancio. Noi siamo una parola forte in un contesto urbano anche molto caotico, dove regna la fretta, l’impazienza, l’insofferenza e la tristezza. Di fronte all’individualismo imperante rispondiamo con alcuni valori lontani dalla cultura odierna: fermarsi, dare tempo al tempo, riflettere. Viviamo lunghi tempi di meditazione in cui fare un lavoro introspettivo dentro di sé e di approfondimento della preghiera.
Per noi che non guardiamo la tv, l’immagine ha mantenuto un valore importante. Abbiamo sempre lo stesso panorama davanti. Lo stesso chiostro, le stesse sorelle, il loro volto che impariamo a guardare veramente, in profondità. C’è una staticità nella nostra vita che va controcorrente. Nell’epoca del low cost è possibile vedere facilmente il mondo, ma si smarrisce il fascino, la bellezza, il mistero della propria casa. Per noi è diverso. Noi ci accorgiamo di chi abbiamo a fianco. La clausura ricorda al mondo che la vera vita è un’altra».
Lei è monaca da 32 anni: come è cambiata la clausura in questo lungo periodo?
«Forse è cambiato il suo ruolo in senso pastorale. È cresciuto il servizio della clausura nella società come punto di incontro e di dialogo. In questi anni a Roma mi sono accorta di quanto sia importante dare alle persone uno spazio di ascolto e quanto sia importante la grata, che dona un grande senso di riservatezza, di consegna intima. Chi si confida sa che quello che dice sarà custodito con attenzione. In città ci sono moltissime offerte pastorali (catechesi, incontri, percorsi spirituali) ma ci sono poche persone disposte ad ascoltare».
Voi prima di essere monache siete donne. Come riuscite a vivere pienamente la vostra femminilità?
«Secondo me la clausura è un luogo privilegiato. Alle giovani che entrano dico sempre che la nostra vita è di una semplicità estrema.Viviamo insieme e lavoriamo insieme per mandare avanti una comunità di 25 persone. Bisogna pensare alla cucina, alla dispensa, alla lavanderia, al giardino, all’orto e alla preghiera. Tutte abbiamo dei compiti da svolgere. Curare l’andamento della casa secondo me è un ruolo tanto femminile e tanto sconosciuto oggi. La nostra esistenza dunque è proprio un aiuto a riscoprire i valori della femminilità; noi facciamo quello che fa una madre di famiglia».
Daniela Catalano