Dovere della memoria e dovere della storia

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Lunedì 27 gennaio si ricordano le vittime dell’Olocausto, una ricorrenza che rischia di essere sempre più schiacciata su una sorta di “marketing memoriale”, dal consumo veloce e rassicurante

Se è vero che, a lungo andare, ci può anche essere “una stanchezza della memoria” e la ricorrenza, col passare del tempo, rischia di essere sempre più schiacciata su una sorta di “marketing memoriale”, dal consumo veloce e rassicurante, è pur sempre vero che, proprio di fronte alle domande e alle inquietudini del nostro presente, un intelligente esercizio di memoria è indispensabile e irrinunciabile. E il 27 gennaio ha senz’altro il merito di avere esteso, attraverso questo esercizio di memoria, la sensibilità generale sulla Shoah.

Però è altrettanto vero che avere memoria significa rielaborare tutto questo dentro di sé, assumendolo nei propri codici etici e culturali, dove la consapevolezza del passato ci aiuta ad agire nel nostro presente.

Anche perché, dopo che se ne sarà andato anche l’ultimo testimone, quando rimarremo soli a raccontare l’orrore della Shoah, non basterà dire “Mai più!” né rifugiarsi tra le convenzioni della retorica.

Serviranno gli strumenti della storia e la capacità di superare i riti consolatori. Ragione per cui il “Giorno della memoria” diventa l’occasione per interrogarci su noi stessi, venuti dopo, e che da quell’evento siamo comunque segnati.

E allora, se ci deve essere un “dovere della memoria” ci deve essere sempre anche un “dovere della storia”. Perché contro Auschwitz, contro la lucida programmazione della distruzione dell’uomo, si educa con la storia, con la forza dei fatti e della ragione.

Poi sulla storia è bene che si innesti la memoria e che, a sua volta, la alimenti.

La memoria se viene scissa dalla storia può stimolare molti sentimenti, emozioni, compassioni, desiderio di lotta magari, ma difficilmente riesce a dar vita ad una permanente posizione civile. Compito della storia – ci ha insegnato il grande storico Jacques Le Goff – è anche quello di sforzarsi di introdurre nella memoria più coerenza, eliminandone la carica aggressiva di passione, senza tuttavia privarla della sua “carica passionale positiva e della verità sua propria”. Sapendo che, al di là della carica emotiva, per leggere un documento – anche una testimonianza – servono molte cose: interpretazione, educazione allo sguardo, conoscenza del suo uso nel tempo.

Credere che un documento parli da solo è la via per capire

davvero poco.

Solo la storia, dunque, può rispondere al neutralismo di chi per moda, per calcolo o per mancanza di conoscenze o per timore di schierarsi, non nega lo sterminio dei campi, ma discute questo o quell’aspetto, chiedendosi se poi è proprio tutto vero e non si tratti di propaganda a fini politici. Solo la storia può evitare i rischi della retorica negazionista (che dilaga in Internet e si diffonde – ahimè – anche nelle aule scolastiche e universitarie!), del revisionismo interessato, delle banalizzazioni degradanti, ma anche il rischio della “sacralizzazione”, di una memoria che scarta tutto ciò che può porre problemi, in un’immagine epica e astorica che deresponsabilizza per il passato e per il presente.

La storia ci può far capire che il nazismo non nasce dal nulla, ma su una base culturale e storica, assai più difficile da distruggere del nazismo stesso.

Solo la storia ci può spiegare che il genocidio fu l’esito dell’incontro tra lo sconvolgimento sociale provocato dalla modernizzazione e i poderosi strumenti di ingegneria sociale creati dalla modernità stessa. E che sebbene tale intreccio sia stato unico nella sua tragicità, i fattori che ne furono alla base continuano ad operare e ad essere diffusi.

Perché Auschwitz è anche il luogo terminale ed estremo di una razionalità burocratica che separa le mansioni, che frammenta e che alla fine cancella le responsabilità individuali, separa i mezzi dai fini, rende difficile una valutazione morale dei propri comportamenti. E che chiama in causa non solo le forme del consenso, ma spinge ad interrogarci su come si produce la morte di massa nell’età della tecnica.

È la storia a dirci che lo sterminio funzionò grazie ad un apparato organizzato secondo criteri gerarchici di obbedienza e una razionalità burocratica moderna che fa venire meno la responsabilità dei soggetti mentre divide e separa le loro mansioni.

Perché noi oggi sappiamo che gli uomini e le donne, coinvolti a vario titolo e a vari livelli di consapevolezza nella macchina dello sterminio, sono stati decine e decine di migliaia: non solo mostri, non solo tedeschi, non solo fanatici nazisti.

Per la maggior parte erano anzi buoni padri di famiglia, fedeli alla consegna del proprio lavoro, obbedienti a una logica di efficienza e di comando.

Solo la storia, infine, specie nella sua dimensione comparativa, ci aiuta a collocare con chiarezza il genocidio al centro del mondo contemporaneo, attribuendogli una dimensione diversa dalle guerre di popolo e di religione del passato: la dimensione specifica, cioè, dei crimini dei regimi totalitari che attraversano il cuore della nostra civiltà.

Né è di scarso significato che Auschwitz sia stato realizzato al centro di un secolo da poco trascorso e al centro della civilissima Europa, da un regime politico salito al potere grazie al libero voto della maggioranza dei cittadini di un paese colto e civile, di antica cultura e tradizione.

La scommessa intorno al “Giorno della memoria”, dunque, dovrebbe riguardare proprio la costruzione di una coscienza storica attrezzata e, soprattutto, la costruzione di un’identità europea che, partendo dall’abominio unico e irripetibile del genocidio, sia capace di sopravanzare le singole identità nazionali. Perché, come ha scritto Pierre Sorlin, “l’Europa si è creata da un disastro a cui quasi tutti gli stati europei hanno partecipato”, segnalandoci che “la nostra storia di europei parte dalla Shoah e dobbiamo esserne coscienti”.

Pierangelo Lombardi

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