Che cosa ci insegna la Resistenza?

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Torniamo, anche quest’anno, a commemorare il 25 aprile. Non potremo andare in piazza, ma seguiremo in tv e sul web le varie manifestazioni. Intanto ospitiamo questo contributo, in attesa di riceverne altri per continuare ad approfondire l’argomento

25 aprile 1945: una data che ricorda un fatto ormai passato alla storia, ma ancora carico di significati e di memorie. Non fu la fine della seconda guerra mondiale, né il giorno della firma della pace, fu il giorno dell’insurrezione, nell’Italia del Nord, dei partigiani del Corpo Volontari della Libertà, proclamato dal CLNAI, prima dell’arrivo dell’esercito angloamericano. A istituire ufficialmente questa data fu la legge n. 260 del maggio 1949, presentata su proposta del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. «A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile è dichiarato festa nazionale». Anche quest’anno, quindi, ricordiamo gli uomini e le donne della Resistenza, gli italiani uccisi per combattere il nazifascismo, i soldati che morirono per salvare l’onore, i caduti delle Forze Alleate e del nuovo esercito italiano nella guerra per la liberazione dell’Italia. L’obbiettivo dell’insurrezione del 25 aprile era disturbare la ritirata delle truppe tedesche e catturare o eliminare gli ultimi esponenti della repubblica di Salò nell’Alta Italia, in attesa dell’arrivo delle forze militari alleate che già avevano raggiunto e liberato Genova e Bologna. Fu la conclusione dell’attività di guerriglia della Resistenza durante i tremendi venti mesi dal 1943 al ’45, attività non determinante dal punto di vista militare, ma testimonianza morale importante per una schiera di uomini e donne che avevano sentito il richiamo della libertà da quel regime autoritario che aveva trascinato l’Italia alla mercé dei nazisti in una guerra persa in partenza. Erano 10, 20, 50.000 sulle montagne, poi saliti a 100.00 negli ultimi giorni di aprile, ma uomini e donne capaci di coraggio, di spirito di sacrificio e di imprese audaci ispirate alla voglia di libertà e, a volte, anche dall’odio e dalla rabbia per tanti sacrifici e ingiustizie subite. Furono giorni di gloria e di vendetta: una guerra civile. Erano contadini, operai, intellettuali, studenti, ex militari, religiosi, insieme essi costituirono il movimento della Resistenza: tra loro vi erano azionisti, socialisti, liberali, comunisti, cattolici, monarchici, ex soldati e anche molti ex fascisti delusi. Non fu un esercito compatto, non poteva esserlo, ma piuttosto una rete ideale, che operava, in montagna o nelle città, in ordine sparso e in condizioni di grande difficoltà e pericolo. L’origine della Resistenza italiana risale all’8 settembre 1943, data che segna la rottura di un precario equilibrio nel Paese. L’umiliante dissoluzione dell’esercito senza più ordini e soggetto alla rappresaglia dell’ex alleato tedesco, il “tutti a casa” in disordine, il crollo delle istituzioni indussero tanti giovani sbandati a decidere il loro futuro, senza tempo per riflettere, in un momento di presa di coscienza individuale e collettiva. Si trattava di ristabilire le regole e le condizioni per recuperare l’identità della nazione travolta dalla guerra e dall’occupazione nazista. Queste riflessioni portarono molti giovani alla dissociazione nei confronti del Governo di Salò che, appena costituito, finì per interpretare i peggiori caratteri dell’occupante tedesco, come l’arruolamento obbligatorio. Molti giovani o soldati rifiutarono l’ordine e si nascosero nelle città o presero la via della montagna come nel nostro Oltrepò. Questa scelta portò loro un nuovo e profondo sentimento patriottico e ad una decisione in attesa delle prospettive di successo delle forze militari alleate. La Resistenza fu allora in positivo la comune aspirazione a riacquistare i valori essenziali della convivenza civile, delle libertà personali e collettive, delle regole e delle tradizioni che fanno di un popolo una Nazione. Tale rivolta interiore si tradusse presto in lotta armata e ad essa parteciparono direttamente o indirettamente tutti. Ne derivò una guerriglia di liberazione dall’occupante tedesco e dai collaborazionisti repubblichini: una guerra patriottica intesa alla conquista della libertà con la speranza del progresso, dell’uguaglianza, della dignità e della democrazia. In questa operazione il popolo italiano ebbe la fortuna che fu negata ad altri popoli europei dalle intese di Yalta, che portarono la Polonia e l’Ungheria sotto altre forme di dittatura e ad altre condizioni di terrore e miseria ancora per cinquant’anni. La lotta partigiana fu aspra, combattuta fra occupanti e insorti, questi ultimi sorretti dalla popolazione civile delle campagne e della montagna a proprio rischio, in condizioni tremende durante l’inverno ’44/’45, sotto l’incubo dei rastrellamenti degli occupanti, attenuate in parte dai lanci di armi e rifornimenti dagli aerei alleati. La guerriglia degenerò presto in una guerra civile fra italiani, con imboscate, rappresaglie, rapimenti, fucilazioni da ambo le parti e scontri fra gli stessi insorti di differente credo politico, ben descritti con dettagli tragici nel diario “Dieci mesi d’inferno” del parroco di Broni mons. Alessandro De Tommasi. Nelle stesse formazioni partigiane unite per combattere tedeschi e fascisti si trovavano elementi di diversa formazione politica, con aspirazioni comuni alla liberazione dall’occupante per instaurare la democrazia, seppure intesa in forme differenti: liberale o comunista. Nell’Oltrepò si trovava a Varzi il Quartiere Generale delle formazioni Giustizia e Libertà, attive e disciplinate, che costituirono per vari mesi con alcuni comuni vicini una “repubblica”, a Pometo la Brigata Matteotti del comandante Fusco (Cesare Pozzi), a Zavattarello il comando delle Formazioni Garibaldine. Vi era il pericolo che prevalesse la composizione ideologica rispetto all’obbiettivo comune, ed in parte avvenne, ma l’unità dell’ideale fu l’elemento fondante che ha legittimato e dato significato alla Resistenza. La contrapposizione di comportamenti durante le operazioni belliche, gli scontri, i rastrellamenti, la liberazione temporanea di paesi, è ricordata da Beppe Fenoglio nel romanzo “Il partigiano Johnny” passato da una Brigata di “rossi” rifiutata per i suoi metodi inaccettabili ad una di “azzurri” con i quali condividerà la battaglia e la morte. È ancora più evidente nel diario del partigiano Adriano Bianchi di Tortona comandante di una Brigata, ferito e medaglia d’argento al valore, che, dopo un’azione condotta con successo contro i repubblichini, vede giungere un commissario politico che si complimenta ed offre come premio la prossima consegna di due prigionieri fascisti da fucilare. La reazione fu decisa, e la proposta rifiutata con sdegno nel nome del rispetto della dignità, della giustizia e della pietà cristiana. Tanti furono i partigiani caduti nelle vicende della Resistenza e anche l’Oltrepò ha dato un contributo di sangue e di valori alla lotta per la libertà. Ora è giusto e doveroso serbare la memoria di quegli esempi di alto e nobile sacrificio; una memoria che è tanto più condivisa quanto più quegli esempi sono conosciuti e approfonditi senza concessioni alle derive dell’opportunismo ideologico o al totalitarismo di pensiero. «Nessuna violenza pregressa, per quanto feroce, può giustificare, dopo la resa del nemico, il ricorso alla giustizia sommaria. Mai questa può essere commessa in nome della libertà e della democrazia»: così ha affermato il Presidente Sergio Mattarella nel ricordo della Resistenza nel Veneto. Cosa ci ha insegnato la Resistenza, oltre ai valori di libertà e democrazia? Oggi la Resistenza non può essere piegata al successo delle ideologie di parte, ma, per fare la storia, deve essere obbiettivamente considerata rivolta sia ad una concezione della vita nella libertà, sia della politica che rifiuta la rivoluzione. Per questo motivo, il nostro impegno, oggi come in ogni giorno del nostro cammino di vita, è quello di rinnovare dentro di noi quei valori che possono rimanere eterni solo nel momento in cui riusciamo a comprenderne appieno la loro forza dirompente e a trasmetterla agli altri e alle giovani generazioni: la difesa della dignità della persona, i cui diritti fondamentali vengono prima e sopra al potere dello Stato, la ricerca dell’uguaglianza possibile fra i cittadini, la sobrietà e la giustizia, la diffusione della cultura, guida e strumento di equilibrio della persona, e la solidarietà fra i popoli e le Patrie nella costruzione dell’Europa. Su questi valori può realizzarsi la conciliazione senza dimenticare e fare torto alla verità storica. Ettore Cantù

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