L’altra dittatura dell’Oltrepò: il “no” a tutto sempre e comunque
Il dibattito. «Ha ragione Pierangela Fiorani, bisogna difendersi da chi vorrebbe imporre le proprie scelte al territorio, ma corriamo un rischio…»
Dice bene Pierangela Fiorani che dalle colonne del Popolo, la scorsa settimana, invitava la gente d’Oltrepò a difendersi dalle dittature di chi vorrebbe imporre le proprie scelte al territorio: bisogna più che mai saper pronunciare dei no forti, decisi e importanti. Giustissimo, dobbiamo tutti far quadrato attorno a questo fazzoletto di terra così ricco e pure così fragile.
Ma nel tentativo di aggiungere un altro spunto alla riflessione sul futuro suggerita da questo giornale, consentitemi ora una piccola provocazione: nella nostra sacrosanta battaglia per la tutela del bene comune stiamo attenti anche a non soccombere a un’altra dittatura, che è proprio quella del “no” a tutto sempre e comunque. Perché se è vero che le scelte scellerate sono nocive, anche l’eccesso di veti e l’assenza di decisioni possono rivelarsi perniciose.
E siamo sicuri che alcuni problemi che affliggono il nostro Oltrepò non siano riconducibili anche alle barricate mentali che nei decenni abbiamo saputo erigere di fronte alle (poche) proposte giunte all’attenzione degli amministratori locali?
Prendete alcune grandi “battaglie” che hanno mobilitato e profondamente diviso le nostre comunità negli ultimi tempi: per esempio l’autostrada Broni-Mortara e l’impianto di pirolisi a Retorbido, ma anche il centro di riabilitazione che quindici anni fa avrebbe dovuto sorgere all’ex Grand Hotel di Salice.
Quanto i no dell’opinione pubblica che hanno affossato quei progetti erano consapevoli e quanto, invece, viziati dalla paura, figlia della scarsa conoscenza o addirittura di un pregiudizio di qualunque tipo, finanche solo politico? E soprattutto: quando abbiamo detto legittimamente no a queste proposte avevamo se non delle alternative, utili magari a risolvere un problema emergente (pensate all’esigenza di bonificare dall’amianto l’area ex Valdata, che era stata scelta per l’impianto nel paese di Bertoldo ed è tuttora in vendita, o all’urgenza di salvare quel che resta del prestigioso albergo all’imbocco del parco salicese), almeno un’idea di cosa si vorrebbe fare di quei luoghi?
A scanso di equivoci e pretestuose polemiche, preciso subito che anch’io vivo da sempre in Oltrepò e quindi anch’io ho a cuore la salubrità e il paesaggio di questa terra; ma temo che l’immobilismo in cui da decenni vegetiamo sia frutto anche di troppe mancate decisioni e di altrettante proposte bocciate troppo in fretta. E, soprattutto, temo che dipenda dall’assenza di una visione più ampia, di un’idea: cosa vogliamo fare di questo nostro territorio? Proteggerlo, certo. E poi?
Come pensiamo di risolvere i tanti problemi che lo affliggono, dalle frane alle aree industriali dismesse, dalla viabilità inadeguata all’assenza di lavoro che è l’unico modo per trattenere le persone nelle nostre località e nelle nostre vallate? E, giusto per provare a volare alto: come pensiamo di creare sviluppo, fondamentale per garantire alla nostra economia territoriale di continuare a vivere alimentando le imprese che già ci sono e quelle che potrebbero insediarsi? Si dirà che oggi è tutto più difficile perché c’è la crisi e anche lo Stato è a corto di soldi: in parte è vero ma rischia di essere soprattutto un comodo alibi, perché con idee e progetti si possono trovare anche i fondi. Senza strategia, invece, si è completamente fermi.
Da cronista, negli ultimi trent’anni ho sempre sentito ripetere dagli amministratori di turno che l’Oltrepò è una terra ricchissima – ed è vero – e che il suo futuro sta nell’agricoltura e nel turismo. Ebbene, oggi è davvero così? Nel corso dei lustri è cambiata la nostra “quota di mercato” in questi due ambiti dell’economia che sappiamo essere strategici per l’Italia intera? E il nostro brand, quel marchio “Oltrepò Pavese” che, grazie alla ricchezza del territorio e alla vicinanza alle grandi città del Nord Ovest, può davvero legare enormi potenzialità sul piano enogastronomico e turistico, è diventato più famoso e più prestigioso di un tempo? Ma soprattutto: per progettare il futuro economico di questo fazzoletto di terra occorrerà puntare anche su altro?
È evidente che chi scrive non detiene le risposte e credo sia ingenuo anche pretendere che le conoscano i cittadini quando scendono in piazza per opporsi a qualunque novità possa cambiare il loro personalissimo status quo: i sociologi la chiamano sindrome Nimby, dall’acronimo inglese “Not In My Back Yard” (letteralmente: “Non nel mio cortile”), e poiché noi italiani ne siamo particolarmente affetti siamo anche più facilmente strumentalizzabili. Ma i primi a interrogarsi sul futuro dell’Oltrepò dovrebbero essere gli amministratori e i politici, ben sapendo che per una sfida così impegnativa potrebbero coinvolgere anche tutte le altre componenti del territorio per raccogliere idee, proposte, disponibilità: per mutuare un’espressione di grande attualità, insomma, potremmo pensare a dei veri e propri “Stati Generali dell’Oltrepò”. Ma viste le recenti polemiche e perplessità, beh… ci accontenteremmo anche di un dibattito su questo giornale: potrebbe essere un ottimo punto di inizio.
Claudio Micalizio
Giornalista e conduttore radiotelevisivo, già direttore dell’informazione di Radio Monte Carlo e co-fondatore di telePAVIA