L’Irpinia 40 anni dopo: il terremoto che cambiò l’Italia

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Era il 23 novembre 1980 quando il sisma di magnitudo 6.9 cancellò interi paesi e provocò quasi 3.000 morti. La ricostruzione c’è stata, ma è stata lenta. Anche la nostra Diocesi, con mons. Francesco Remotti, fu protagonista della gara di solidarietà

Quarant’anni fa una delle più grandi tragedie si abbatteva sull’Italia contemporanea. Era ancora vivo il ricordo del Belice (1968) e soprattutto del Friuli (1976), ma quella domenica sera del novembre 1980 l’impatto fu devastante e mise in ginocchio una nazione intera.

Il terremoto fa una strage in una vasta area, tra Campania e Basilicata. La zona più colpita nel cuore dell’Irpinia, in provincia di Avellino, ma danni gravi si registrarono anche nelle province di Potenza, Napoli, Salerno. Paesi bellissimi e suggestivi rasi al suolo, una dramma umano enorme segnato da quasi 3.000 morti, più di 8.000 feriti e 300.000 senzatetto: sono passati quarant’anni da quel terribile sisma di magnitudo 6.9 (decimo grado della scala Mercalli all’epicentro) che alle 19.34 del 23 novembre 1980 allungò la sua onda fino alla Pianura Padana a nord e alla Sicilia a sud.

Simbolo della catastrofe resta il crollo del soffitto della chiesa Madre di Balvano (Potenza) che seppellì 66 persone, per la maggior parte bambini e ragazzi, di fatto cancellando una generazione del borgo.

L’Italia era in ginocchio, nessuno dimentica le lacrime del presidente Sandro Pertini, le preghiere di Giovanni Paolo II. Nell’immediato dopo terremoto, di fronte alle immagini di disperazione, di precarietà e di bisogno che le televisioni diffusero in tutto il mondo, si avviò finalmente la macchina dei soccorsi, guidata da Giuseppe Zamberletti (morto il 26 gennaio dello scorso anno), nominato Commissario straordinario del Governo. Fu la premessa di una moderna struttura di Protezione civile, in cui Stato, Regioni ed Enti locali sono chiamati a fare sistema.

Un impulso prezioso per intraprendere un cammino di rinascita arrivò dalla generosità e dalla solidarietà degli italiani e di tanti Stati esteri; dall’azione costante dei sindaci e degli amministratori locali, ai quali furono delegate molte competenze, all’intervento delle Forze armate, della Chiesa e del volontariato. La classe politica seppe ritrovarsi compatta e in tempi rapidi fu approvata la legge 219 (maggio 1981) per la ricostruzione delle case nei complessivi 506 comuni danneggiati delle province di Avellino, Benevento, Caserta, Matera, Foggia, Napoli, Potenza e Salerno, ma anche per lo sviluppo industriale di tali aree.

L’opera di recupero del patrimonio edilizio, sia pure tra ritardi e lentezze e con tempi diversi da provincia a provincia, è stata quasi ultimata sia in Campania, sia in Basilicata, mentre la prospettiva di sviluppo industriale è rimasta per gran parte inattuata. Solo pochissime aziende sono in attività, molte imprese sono state dichiarate fallite qualche tempo dopo aver percepito i contributi pubblici, quasi la metà delle concessioni industriali è stata via via revocata, soltanto una piccola parte delle risorse finanziarie è stata recuperata.

Sulle macerie del terremoto del 1980 è nata, infine, l’Università della Basilicata, pensata come modello di eccellenza per l’intero Mezzogiorno, ma che si propone anche l’obiettivo di fermare, o almeno rallentare, l’emigrazione giovanile dal sud verso altre aree del Paese e verso l’estero.

In ogni caso, oltre agli interventi, insieme alle polemiche e alle accuse, si mise in moto la macchina della bontà, la parte del bene e dell’amore che vince anche nei frangenti più terribili. Una gara di solidarietà che partì da ogni periferia, con il mondo cattolico tra i protagonisti di questa azione di aiuto. Mentre sono ancora aperte le crepe di quel minuto e 20 secondi che ha seminato morte e distruzione, la straordinaria solidarietà coordinata dalla Caritas che si porta con sè tutte le componenti del mondo cattolico, consolida un nuovo modello di intervento. Dietro le cifre delle vittime e dei senzatetto altrettante storie interrotte, lacerate, cambiate per sempre. I comuni danneggiati sono 280, i paesi rasi al suolo 36. Due le diocesi principalmente coinvolte (Avellino e Potenza), 29 quelle interessate. L’area ferita misura 27 mila chilometri quadrati, tre volte quella del sisma in Friuli nel 1976. La positiva esperienza sperimentata in occasione proprio del terremoto del Friuli persuade Caritas Italiana a riproporre il metodo dei gemellaggi tra le diocesi italiane e le parrocchie terremotate, come strumento principale di prossimità e accompagnamento alle comunità colpite, allo scopo di assicurare sostegno morale e materiale per tutto il tempo dell’emergenza acuta e della ricostruzione. Ben 132 Diocesi aderiscono alla proposta di gemellaggio, con il fondamentale apporto di volontari e obiettori di coscienza.

Anche la Diocesi di Tortona, con mons. Francesco Remotti e i tanti volontari che si erano impegnati con la popolazione del Friuli quattro anni prima, partecipò con il suo carico di speranza e aiuti concreti. Un’esperienza storica di presenza e di scambio fra nord e sud Italia, destinata a ripetersi in occasione delle catastrofi collettive nei decenni successivi, come nel terremoto in Umbria e Marche, nel Molise e in Abruzzo.

Una presenza che diventò forte stimolo per la Chiesa italiana a proseguire nell’opera di solidarietà con le popolazioni colpite e, nei confronti delle istituzioni, a impegnarsi senza indugi nella ricostruzione e nella prevenzione.

Luca Rolandi

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