A che cosa sono serviti vent’anni di guerra?
Dramma Afghanistan. Dal ritiro delle truppe occidentali alla formazione del Governo talebano: un Paese in cui donne e bambini sono le principali vittime di violenza
Le cronache di politica internazionale della fine di questa estate 2021 sono state occupate per la gran parte dalle corrispondenze dall’Afghanistan dopo il ritiro delle truppe americane ed occidentali da quel martoriato Paese.
Le immagini di Kabul che ritorna nelle mani dei talebani, la repentina ritirata dei soldati americani, l’evacuazione delle ambasciate europee, l’assalto allo scalo aereo e l’attentato kamikaze del 26 agosto con quasi 200 morti, l’arrivo in occidente dei primi profughi afghani, la bandiera dell’emirato islamico che torna a sventolare sui palazzi del potere, hanno fatto il giro del mondo. Tanti i commenti e una domanda: a che cosa sono serviti vent’anni di guerra, voluta dagli Stati Uniti e dai Paesi dell’Occidente per stanare i terroristi dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2021?
Con la preoccupazione che l’Afghanistan diventi nuovo terreno di coltura per il terrorismo estremista e soprattutto con l’angoscia per la situazione di donne e bambini. Preoccupazione che non può che aumentare considerando la composizione del nuovo Governo afghano insediatosi alcuni giorni fa. Il mullah Mohammed Hassan Akhund ne sarà il nuovo capo. Nell’esecutivo altri leader del gruppo storico degli islamisti, alcuni dei quali da anni iscritti nella lista dei terroristi della comunità internazionale. Consigliere politico del mullah Omar, governatore di Kandahar, ministro degli Esteri nel primo Governo talebano dal 1996 e 2001 e considerato uno dei responsabili della distruzione dei Buddha giganti di Bamiyan, Mohammed Hassan Akhund è il primo ministro.
Un esecutivo composto in larga parte da uomini di etnia pashtun vicini al gruppo storico dei talebani e in cui il capo del Governo non è l’unico a essere iscritto nella lista dei terroristi di Nazioni Unite, Stati Uniti e Regno Unito. Tra questi spicca il ministro degli Interni Sirajuddin Haqqani, leader della rete che porta il nome della sua famiglia da sempre considerata il gruppo di contatto tra talebani e Al-Qaeda, su cui pende una taglia da 10 milioni di dollari per la responsabilità di un attentato kamikaze a Kabul nel 2008.
In diverse occasioni, il Santo Padre Francesco in queste settimane ha espresso la sua apprensione per la situazione del Paese: «In questi momenti concitati – ha affermato alcuni giorni fa – che vedono gli afghani cercare rifugio, prego per i più vulnerabili tra loro; prego perché molti Paesi accolgano e proteggano quanti cercano una nuova vita. Prego anche per gli sfollati interni, affinché abbiano assistenza e la protezione necessaria. Possano i giovani afghani ricevere l’istruzione, bene essenziale per lo sviluppo umano e possano tutti gli afghani, sia in patria, sia in transito, sia nei Paesi di accoglienza, vivere con dignità in pace e in fraternità con i loro vicini».
Dicevamo della condizione delle donne. Le donne in Afghanistan non possono praticare sport, possono frequentare le scuole superiori e le università private, ma devono attenersi a dure restrizioni sul loro abbigliamento (solo se indossano un “abaya”, un’ampia tunica, e un “niqab”, un velo sul viso con una piccola finestra) e sui loro movimenti. Nei migliori dei casi le aule sono state divise con una tenda: da una parte gli uomini e dall’altra le donne. Non possono lavorare fuori casa, non possono truccarsi, non possono prendere un taxi se non accompagnate da un uomo, non possono apparire in tv e in ogni altro evento pubblico, devono indossare il burqa.
Senza dimenticare la condizione dell’infanzia: secondo l’Unicef, nel Paese ci sono 300 mila bambini sfollati. Molti dei piccoli sono stati costretti a lasciare le loro case a seguito dell’arrivo dei talebani, 1 milione di bimbi sotto i 5 anni soffrirà di malnutrizione grave, pericolosa per la vita. Mentre oltre 4 milioni di minori, tra cui oltre 2 milioni sono ragazzine, sono fuori dalla scuola.
Un ventennio aperto dal crollo delle Torri gemelle, che si chiude con la presa del potere dei Talebani in Afghanistan. Allora si parlò di “scontro di civiltà”: secondo padre Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, «una formula infelice. La democrazia è un grande valore ma non si esporta, deve essere il frutto di un processo. Bisogna essere lungimiranti, avviare processi che guardino al futuro.
L’Afghanistan ci ha mostrato come il lavoro di vent’anni, se è nato male, può crollare in venti giorni».
Marco Rezzani