A Marengo il tramonto di una “primavera” italiana
Nel bicentenario della nascita di Napoleone e a pochi giorni dall’anniversario della battaglia alle porte di Alessandria, non si possono dimenticare le migliaia di combattenti caduti difendendo la propria identità
Siamo nel bicentenario della morte di Napoleone e il 14 giugno ricorre l’anniversario della battaglia di Marengo. Senza alcun dubbio le date della storia non vanno passate sotto silenzio, tuttavia l’enfasi, con cui sono iniziate in queste settimane le celebrazioni napoleoniche, non è la giusta misura della memoria. Sarebbe, invece, auspicabile che la ricorrenza si aprisse a una serena contestualizzazione, scevra di preconcetti della figura e della vicenda dell’“astro napoleonico”, in quella prospettiva di “non temere la storia”, che deve caratterizzare un sereno studio storiografico.
Siamo abituati da decenni, grazie soprattutto ad una certa lettura ideologica che fa della Rivoluzione Francese l’antenata illustre delle rivoluzioni del XX secolo, a dare per scontato che i moderni diritti civili siano nati sulle picche dei sanculotti che assaltavano la Bastiglia. Ammessa e non concessa questa lettura storica, Napoleone non può certo presentarsi come un “esportatore” di democrazia, anzi è persino un “traditore” degli ideali rivoluzionari, giacché riuscì in pochissimi anni a trasformare la rivoluzione, che vide il re salire sulla ghigliottina, in un impero ancor più centralizzato e assolutistico dell’Ancien Régime.
Non c’è ombra di dubbio che Napoleone fu un uomo geniale, di quelli che capitano sul palcoscenico della storia assai raramente. Lo descrive bene Manzoni nell’ode Il cinque maggio, definendolo un cuore indomito, che serve pensando al regno e giunge a ottenere ciò che era follia sperare.
È indiscutibile che il figlio di Carlo Maria Buonaparte (il cognome fu cambiato dallo stesso Napoleone in Bonaparte), oscuro avvocato corso, che in San Miniato fece carte false per cercare di dare alla famiglia una parvenza di nobiltà, eresse uno dei più gloriosi troni imperiali della storia e vi si assise; contestualmente spodestò una serie di antiche dinastie regnanti europee sostituendole col folto gruppo dei suoi familiari. Una personalità che avrebbe certamente affascinato Machiavelli, per l’ardire spregiudicato con cui si mosse sulla scena mondiale, ma nella quale non possiamo vedere alte idealità, solo il desiderio di affermazione di se stesso e di ascesa sociale della propria famiglia.
Il raggiungimento di questo obiettivo costò più di quindici anni di guerre sanguinose all’Europa. Per non parlare delle sistematiche razzie a cui sottopose il nostro Paese, di opere d’arte e persino archivi, portando alla scomparsa di molti di essi.
Di contro la verità della storia – tanto più in quest’anno bicentenario – reclama di rendere giustizia e onore alle migliaia di nostri antenati che insorsero spontaneamente in armi contro le truppe rivoluzionarie prima e napoleoniche poi, in nome della loro fede e della devozione a quelli che ritenevano i loro legittimi sovrani
La Dinastia Sabauda, il Sacro Romano Imperatore e le Magistrature della Repubblica Genovese furono difese strenuamente, insieme alla religione, tra il 1796 e il 1799 dalle popolazioni del Basso Piemonte e delle valli liguri, che alcuni hanno definito la “Vandea Italiana”. Il 14 giugno 1800, data della vittoria napoleonica a Marengo, è un triste giorno, assolutamente non di libertà per le nostre terre, perché segnò la sconfitta di quell’epopea popolare che infiammò le pianure lombarde e piemontesi e le valli dell’Appennino ligure negli anni precedenti.
Già nel 1796-97 il Nord-Ovest aveva conosciuto l’insorgenza e il fermento non si era mai del tutto sopito. Tra i primi episodi vanno annoverate le insurrezioni antigiacobine del maggio-giugno 1796, pochi mesi dopo l’invasione comandata dal generale Massena; a fine maggio 1796 insorse Pavia e il suo contado, dove intervenne lo stesso Napoleone che ordinò l’incendio e il sacco di Binasco. In giugno fu la volta di Tortona e dei feudi imperiali di Valle Scrivia; in particolare va ricordata l’insorgenza di Arquata Scrivia, comandata da Agostino Spinola, che si concluse con l’incendio e la parziale distruzione del borgo il 9 giugno 1796. Dalla Valle Scrivia l’insorgenza passò nel Genovesato, fondendosi con l’estrema difesa della Repubblica Ligure. Tra il maggio e il settembre 1797 focolai di rivolta esplosero a Genova al grido di “Viva Maria! Viva il nostro Principe!”; la rivolta si estese a tutto il Levante ligure, da Sarzana a Levanto e soprattutto nella valle Fontanabuona.
Da qui il 4 settembre 1797 un’autentica armata popolare, con in testa i parroci e i “Cristi” delle confraternite, scese a conquistare in successione Chiavari, Rapallo, Camogli, Recco, fino a giungere a Nervi e a Quinto. L’insorgenza rimase così radicata ed endemica fino al 1814 che i Francesi definirono la Fontanabuona con l’epiteto di “Fontaine du diable”. Nel 1799 Branda de’ Lucioni diede una dimensione unitaria e organizzata all’insorgenza del Nord Ovest, approfittando dell’assenza di Napoleone, impegnato nella campagna d’Egitto. Branda era un maggiore dell’esercito imperiale (si noti: non “austriaco” ma “imperiale” cioè a servizio del Sacro Romano Imperatore) di quei raggruppamenti di cavalleria leggera noti come “Ussari”. Il 29 aprile 1799, mentre gli Austro-Russi entravano in Milano, il maggiore Lucioni galoppava con venticinque commilitoni verso il Ticino, che stava per diventare la linea di difesa francese dopo la ritirata dal Milanese; qui diffuse i primi ordini di mobilitazione, comandò di accendere i fuochi e di suonare le campane a martello nei paesi rivieraschi: fu il segnale dell’insurrezione generale. I francesi fuggirono verso Vercelli e in pochi giorni nacque l’Ordinata Massa Cristiana, forte di ben 10.000 uomini, accorsi da ogni villaggio e borgo tra il Ticino e il Monviso. Guidata da Banda de’ Lucioni la “Massa” incalzò l’esercito rivoluzionario e in meno di un mese da sola liberò l’intero Piemonte e pose l’assedio a Torino. Si comprende quindi che Marengo non fu solo la vittoria di Napoleone sugli eserciti coalizzati in una guerra combattuta “fuori casa”, ma pure il tramonto di una “primavera” tutta italiana, anche se l’insorgenza continuerà ancora, attraverso un’autentica “Resistenza” terminata solo dopo Waterloo.
Una celebrazione acritica del bicentenario napoleonico, fatto passare come un grande evento di libertà, corre il rischio di dimenticare che centomila italiani sono caduti difendendo la concretezza della propria identità dalla “proposta liberatrice” di Napoleone.
Maurizio Ceriani