Cervelli, anzi, persone in fuga
Di Ennio Chiodi
Immaginate un cartello virtuale posto ai confini del nostro Paese, lungo le autostrade, nelle stazioni, negli aeroporti: indica “senso unico”, un’unica direzione, una strada che non prevede inversioni di marcia o ripensamenti lungo il cammino. È la strada che percorrono ogni anno migliaia di giovani italiani che vanno a lavorare – a vivere – all’estero e che all’estero rimangono. “Cervelli in fuga” li chiamiamo, anche se bisognerebbe piuttosto parlare di “persone in fuga” perché non portano via solo competenze e capacità professionali, ma il loro vissuto e il loro futuro, il loro potenziale, il contributo che potrebbero dare alla crescita del Paese. Dal 2011 al 2023 sono stati ben 550.000. Ne sono rientrati 173.000. Molti di questi, delusi, sono già ripartiti. Il saldo è negativo e il circolo è vizioso: più giovani se ne vanno, meno cresce la popolazione, meno risorse fiscali restano in Italia, meno cresce la ricchezza generale. Sono dati calcolati per difetto, perché non tutti si iscrivono subito o in automatico all’Aire, l’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero. Il fenomeno non ha tanto a che fare con la mancanza di posti di lavoro ma piuttosto con la qualità del lavoro che da queste parti di questi tempi– viene proposta: salari inadeguati; sfruttamento travestito da “stagismo” e apprendistato; scarso rispetto per le persone e per le regole; carriere che restano spesso un miraggio. Fuggono – con i loro cervelli, le loro competenze e la loro determinazione – alla ricerca di opportunità di crescita professionale ed economica, di meritocrazia e di riconoscimenti che in Italia non trovano, nonostante percorsi scolastici e di formazione di altissimo livello. Molti, più semplicemente, sono attratti da stipendi più dignitosi, da condizioni di lavoro più rispettose o da una migliore qualità della vita in termini di servizi e di convivenza civile nei luoghi dove intendono far crescere i loro figli. Non solo ricercatori, economisti, informatici, medici o scienziati imboccano quella strada a senso unico, ma anche diplomati e lavoratori specializzati, operai, operatori sanitari. Secondo una ricerca del Max Planck Institut di Berlino nel 2021 abbiamo perso l’1,3% dei nostri laureati tra i 25 e i 39 anni. Il divario con gli altri Paesi si aggrava ogni anno. L’Italia forma sempre meno laureati rispetto agli altri stati europei e, di questi pochi, molti se ne vanno. Nel frattempo il numero di laureati stranieri che scelgono l’Italia è uno dei più bassi in Europa. Il Bel Paese sarà anche gradevole e spensierato ma respinge e non attrae. Bello venirci in vacanza, ma viverci e lavorare in sicurezza e dignità è tutt’altro discorso. A proposito: il ricercatore del Max Planck che ha condotto la ricerca si chiama Alessandro Foti ed è italiano.
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