«Cosa hai fatto? Sei pieno di sangue dalla testa ai piedi»

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Milano, 12 dicembre 1969: sono passati 50 anni dalla strage di Piazza Fontana che cambiò la storia della Repubblica. Per fare memoria di quel terribile avvenimento (e per non dimenticare) vi proponiamo la testimonianza di chi quel giorno era lì e si è miracolosamente salvato: Guido Cei, di Silvano Pietra, che lavorava alla Banca dell’Agricoltura

Per capire quale fu il significato politico della strage della Banca dell’Agricoltura a Milano, è necessario ripercorrere il processo che ha portato progressivamente alla militarizzazione della lotta politica, di cui Piazza Fontana rappresentò, nel 1969, il culmine più estremo. A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, il ricorso sempre più diffuso alla violenza, rappresentava per alcune minoranze estremiste il “mezzo più efficace e più rapido per modificare i rapporti di potere”. La violenza diventava quindi, per entrambe le parti contrapposte – neofascismo da una parte e sinistra extraparlamentare dall’altra – “l’acceleratore dei processi economici e sociali”.

Il 12 dicembre 1969, con la bomba che esplode nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, a Milano, gli italiani entrarono in una fase storica che sarebbe durata tre decenni: il terrorismo, la strategia della tensione, le stragi, il tunnel della violenza come infame forma di lotta politica. Tutto ad un tratto, sulla scena nazionale comparivano morti ammazzati. E tutto partì, in modo non solo simbolico, ma con il sacrificio di vite umane innocenti da quell’ordigno contenente sette chili di tritolo, piazzato sotto una panca della filiale milanese che esplose alle 16.37. Il bilancio delle vittime fu di 17 morti e 87 feriti. Poi le piste anarchica dapprima e neofascista dopo, i processi, i rinvii, le inchieste, le altre morti e infine le condanne. Ma resta una macchia indelebile nella storia nazionale, l’inizio di un periodo di scontri e morte che avrebbe spezzato lungo un ventennio l’Italia negli anni Settanta e inizio Ottanta.

Guido Cei di Silvano Pietra, 80 anni, professione pensionato bancario, visse l’inferno di Piazza Fontana. Quel tragico venerdì si trovava all’interno della Banca Nazionale della Agricoltura. Lavorava all’ufficio Cambi valuta estero. Era solo quel giorno, alcuni suoi colleghi erano usciti, altri erano malati.

Il clima natalizio e l’apertura pomeridiana favorivano molti agricoltori e commercianti ai quali la banca offriva servizi per assolvere agli ultimi adempimenti prima del Natale.

Clima di festa e attesa. Ma anche di tensione e di paura come quella che si respirava in ogni angolo della città, dopo la ventata sessantottina e l’autunno caldo.

Cosa ricorda di quel giorno signor Guido Cei?

«Io sono stato fortunato perché avrei potuto esserci tra le diciassette vittime. A distanza di cinquant’anni non riesco a capire e darmi pace: perché quella bomba? E chi l’ha messa poi? Quel giorno ero al lavoro. Il mio ufficio non era nel salone della banca, ero nell’ammezzato che era stato ricavato nel cortile del palazzo, un immobile attaccato al resto dell’edificio. Una vetrata rotonda e lunga con vetri smerigliati che guardava sul salone dove è stata collocata la bomba. Era un venerdì e aspettavo di uscire come tutti alle 16.30-16.45, con una certa euforia, perché si prospettava un bel fine settimana di preparazione al Natale. Mi trovavo vicino al mio tavolo e dall’altra parte sul muro c’era l’orologio che avrebbe fissato il tempo alle 16.37. C’è stata una fiammata come un lampo. Nessuno ha pensato a una bomba. Abbiamo pensato che fosse scoppiato l’impianto di riscaldamento. Sembrava una cosa modesta al primo istante da dove eravamo noi. Ma sotto nel salone era tutta un’altra storia. Io non mi sono accorto di nulla ma chi mi ha visto, mi ha chiesto “cosa hai fatto? Sei pieno di sangue dalla testa ai piedi”. Ero in piedi e sono stato investito dall’onda d’urto dei vetri in frantumi della grande vetrata e delle finestre che hanno colpito coloro che si trovavano nel nostro ufficio. L’esplosione dell’ordigno si è riversata come un fulmine dall’alto al basso».

Un inferno di cristallo che ha portato morte e paura nella Milano prenatalizia. Guido Cei ricorda di essere stato portato in salvo passando per lo scalone.

«C’era una confusione totale. Volevo guardare nel salone ma non me l’hanno permesso. Sono stato portato via con una Giulietta della Polizia, quasi tutti i feriti sono stati portati via con auto private e delle forze dell’ordine prima ancora che arrivassero le ambulanze. Tutta la zona fu messa sotto sequestro. C’era un trambusto generale, urla, sangue. I morti nel salone non li ho visti, molti erano colleghi che conoscevo bene, periti insieme ai clienti.Tutte vittime innocenti che si trovavano in quel posto nel momento sbagliato. In ospedale mi hanno curato e sono successivamente tornato per farmi togliere una piccola scheggia di vetro che mi era entrata in un occhio. Naturalmente in quei momenti pensavo alla mia famiglia, alle notizie che radio e televisione trasmettevano. Non esistevano telefoni mobili e decine di persone erano in apprensione».

Cinquant’anni dopo cosa resta?

«Con la violenza non si raggiunge nessun risultato, ma la lezione della storia non arriva a tutti gli uomini. Però il mondo non è composto solo da gente tranquilla, esiste una parte che non comprende come questi atti seminino solo morte e disperazione. Il 12 dicembre è stato un incipit di una stagione nera per il nostro Paese, superata grazie al DNA democratico. Ma tutto è sempre in bilico».

di Luca Rolandi

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