Franco Moroni: per due volte scampò alla fucilazione
Nella Giornata della Memoria il prefetto di Pavia ha consegnato le medaglie d’oro concesse dal presidente della Repubblica ai familiari di nostri concittadini deportati
Lo scorso 27 gennaio, in occasione della Giornata della Memoria, il prefetto di Pavia Rosalba Scialla si è recato a Broni dove, nella sala consigliare del palazzo municipale, ha consegnato la medaglia d’oro concessa dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla memoria di Franco Moroni, deportato nel settembre del 1943 nei lager nazisti.
Alla cerimonia erano presenti il sindaco Antonio Riviezzi e Graziella, la figlia di Franco, già insegnante di scuola primaria, attualmente presidente della locale sezione dell’Unitre, consigliere di amministrazione dell’associazione “Amici del teatro Carbonetti” e socia dell’Inner Wheel Oltrepò.
Ed è proprio Graziella, che era accompagnata dal marito Marco Rovati, a non nascondere l’emozione provata alla notizia, inaspettata, del riconoscimento concesso al padre.
«Stavo camminando lungo una strada di campagna – racconta – in un giorno nuvoloso di questo strano gennaio di pandemia, quando il cellulare ha squillato. “Sig.ra Moroni? Sì. È la Prefettura di Pavia, non si allarmi, devo comunicarle una bella notizia: una medaglia d’onore conferita al sig. Moroni Franco…”. Di colpo quel prato brullo, quei vigneti scheletriti, quel cielo plumbeo sono spariti per lasciare il posto al volto sorridente di mio papà che dal cancelletto di casa mia con la mano mi salutava per l’ultima volta quarant’anni fa. Immediatamente scattava in me il desiderio di condividere la notizia con suo nipote Andrea, che, per undici anni, ha ascoltato i racconti di quel periodo terribile, senza i particolari più atroci che avrebbero potuto turbare la sensibilità di un bambino, ma abbastanza efficaci per insegnargli cosa vuol dire essere privati della libertà».
La storia di Franco è storia di sacrifici, di tenacia, di famiglia. È ancora Graziella ad aprire il libro dei ricordi: «Mio padre nasce a Broni da famiglia contadina, ultimo di cinque figli. L’appezzamento di terreno a cui lavora mio nonno è insufficiente a mantenerli tutti, così trova occupazione, come garzone prima e come commesso dopo, presso la storica drogheria “Chiesa”. Il lavoro gli piace, comincia pure a mettere da parte qualche soldo per realizzare il suo sogno: rilevare la gestione del negozio, in questo incoraggiato dagli stessi proprietari che vedevano in lui il loro potenziale erede». Ma i venti di guerra soffiano impetuosi e costringono a un cambio di programma. È ancora la figlia che ci svela, come in un romanzo, questa fase della vita del padre: «Franco parte nel 1941 per la frontiera greco albanese, si sposta poi in Albania, ritorna in Italia per una breve licenza e riparte per lo scacchiere balcanico dove rimane fino al settembre del 1943. Qui inizia il periodo più difficile della sua vita. Sta per tornare a casa con il cuore ancora pieno di speranze per il futuro, ignaro di quello che sta succedendo in Italia; è in stazione a Bologna ad aspettare un treno per Milano, quando viene catturato, messo su un carro bestiame e spedito verso una destinazione ignota. Il viaggio è lungo, disagevole, non conosce nessuno, sente parlare una lingua sconosciuta, vede dalle fessure del vagone sfilare paesaggi che lo allontanano sempre più dall’Italia. Quando finalmente arriva a destinazione, viene a sapere di trovarsi nei pressi di Berlino in un campo di lavoro per internati civili. Sono momenti durissimi, cominciano i bombardamenti sulla città, il suo compito è quello di scavare fra le macerie, togliendo i cadaveri. Il cibo scarseggia, più di una volta si trova a cercare fra i rifiuti le bucce di patate. Per ben due volte viene messo al muro per essere fucilato, ma poi viene miracolosamente risparmiato.
Non conosco le cause di questi episodi, ne parlò una sola volta perché troppo era il dolore anche nel ricordare».
Gli spostamenti da un campo all’altro sono riportati in un libricino dalla copertina nera che la figlia conserva gelosamente e che il papà ha intitolato “Ricordi di dura prigionia dal 18 – 9 – 1943 al 4 – 4 – 1945”.
«Il diario arriva fino ad aprile – spiega – perché mio padre riesce a fuggire dall’ultimo campo, quello di Buchenwald, insieme a due compagni, un pugliese e un sardo che, a guerra finita, cercherà per anni inutilmente. I tre si nascondono in un bosco fino all’arrivo degli americani, quindi con un carretto e un asino iniziano la marcia di ritorno verso casa. Di tanto in tanto si fermano nelle fattorie, lavorando per poter mangiare, trovando sempre buona accoglienza presso i contadini tedeschi. È in questa fase che si perdono di vista senza mai più ritrovarsi. Papà, sempre a piedi, arriva al Brennero il 29 giugno del 1945 e fu per lui un momento di grande gioia che amava ricordare ogni anno con una festa in famiglia. In Italia lo aspettava la sua fidanzata che non ebbe mai sue notizie durante la prigionia. Insieme iniziano una nuova vita. Papà, sfumato il sogno della drogheria, lavora alla ricostruzione dei ponti bombardati fino ad approdare come autista alla Cementifera bronese. La mia venuta al mondo è stata per lui la vera rinascita, gliela comunicò il geometra Orioli mentre si trovava in una cava per un carico di amianto».
«Sono felice – amava raccontare Franco a proposito della sua bimba – perché come femmina non dovrà mai andare in guerra e voglio per lei il nome più lieto che conosco, lei mi aiuterà a dimenticare».
«Non credo, però, di esserci riuscita – conclude Graziella – tanto è stato gravoso il suo fardello di ricordi. Gli anni del dopoguerra, in un’Italia del boom, gli hanno riservato alcune soddisfazioni; ricordo il suo primo motorino, poi la Vespa e la sua prima automobile, una cinquecento usata. Amava il suo paese, partecipava alle sagre, alla festa dell’uva, alla fiera di san Contardo, ma soprattutto era un frequentatore assiduo del teatro “Carbonetti”, amava il cinema e non mancava mai alle due proiezioni del lunedì al “Cinema Italia”. Questo era mio padre, un uomo umile, intelligente, onesto, travolto da una vicenda più grande di lui, incomprensibile a tutti».
Il sindaco di Broni ha sottolineato come il conferimento dell’onorificenza a Franco Moroni sia stata «un’iniziativa importante per onorare la memoria di un nostro concittadino deportato nei campi di concentramento», ma soprattutto perché «momenti come questo sono fondamentali per ricordare quello che, solamente ottant’anni fa, è accaduto nel cuore dell’Europa. La memoria è importante per evitare che eventi simili possano ripetersi».
Marco Rezzani