Fuori i partiti dal 25 Aprile
Di Ennio Chiodi
“25 aprile. Ore 8. Mi chiamano. La finestra rimane socchiusa anche se l’uscio si apre. La liberazione non è sempre la libertà sognata.” Don Primo Mazzolari, ricercato dalle Brigate Nere, che lo credono sui monti con i partigiani, è nascosto da mesi in una stanzetta della canonica di Bozzolo, dalla cui finestra sembra seguire con ansia – più per i suoi che per se stesso – gli avvenimenti che si svolgono tra l’autunno del ’44 e la primavera del ’45. Racconterà quei giorni in Diario di una primavera, uno dei suoi testi più coinvolgenti (fondazionemazzolari.it). Immediatamente, nella sua straordinaria capacità di guardare avanti (molto avanti, dirà qualche anno dopo Paolo VI, nel definirlo un profeta) aveva intuito una parte delle successive vicende. La libertà non sarebbe stata acquisita una volta per tutte, la giustizia non sempre si sarebbe distinta dalla vendetta e il Paese non avrebbe fatto fino in fondo quei conti con la storia, necessari per poter diventare Patria comune, riconciliata e capace di pensare al domani con determinazione. Sono passati 79 anni da quel 25 aprile; 80 dall’esecuzione, barbara e vigliacca, di Giacomo Matteotti. Il che rende ancora più significativo questo anniversario. “Antifascismo” è parola chiave della nostra storia, come “Resistenza” e come, appunto, “Liberazione”. Ma, quei conti con la storia, rimasti in sospeso, non consentono ancora – di questi tempi – a chi viene di fatto da quella storia, e governa oggi il Paese, di riconoscerne fino in fondo i valori profondi. D’altra parte oggi è difficile non constatare il perdurante disastro del tentativo di appropriarsene da parte di una Sinistra che non approfitta del cammino della storia, della fine delle ideologie e dei blocchi contrapposti, e cerca ragioni di sopravvivenza nel recente passato più che nel futuro. Sembra quasi che l’accusa di nostalgia rivolta alla Destra più ottusa, nasconda una parallela nostalgia: quella di una identità che si realizza più nella contrapposizione che nella ricerca di soluzioni utili a un Paese che si trasforma. Don Primo, che non aveva certo bisogno di patenti di “antifascismo”, scriveva su Adesso, già agli albori degli anni ’50, pensando alla necessità dell’incontro: “Come arrivarci quando ci manca una comune coscienza politica, un affetto comune e un comune altare su cui deporre le armi fratricide e consumare i nostri rancori? Se la Resistenza, per colpa dei partiti, non avesse perduto la sua iniziale nobiltà, se avesse conservato intatto il patrimonio spirituale dei suoi Morti, se invece di scavare una trincea avesse costruito un ponte, avrebbe salvato l’Italia”. Profetico? Alla luce di quanto vissuto soprattutto negli ultimi anni direi proprio di sì.
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