“Gli anni più belli” da ricordare
È la storia di quattro ragazzi che fanno cono-scenza all’inizio degli anni ’80 e danno il via a un’amicizia destinata a durare fino a oggi con alti e bassi, successi e fallimenti, cambiamenti sociali profondi ed epocali, illusioni e delusioni. Questo dodicesimo titolo di Gabriele Muccino tutto sommato è apprezzabile perché al centro c’è il racconto di quel sentimento che in fondo abbiamo provato tutti una volta nella vita, quello che incomincia quasi senza volerlo, e poi diventa via via più centrale, sfociando, ahimè, anche in rancori e gelosie. Immediato il riferimento a “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola di cui la pellicola è dichiaratamente un tributo. È un affresco popolare che piace anche perché Muccino si rifugia a Roma, la cui millenaria solidità regge a ogni cambiamento e permette a questi quattro ragazzi, ormai cresciuti, di ritrovarsi e cantare tutti insieme.
La storia del film copre un arco di circa quarant’anni, fino ai nostri giorni, dai sogni giovanili fino alle rotture dell’età adulta. Sullo sfondo i turbamenti, le crisi e i cambiamenti vissuti dal Paese. Spesso, però, la narrazione si fa troppo irrequieta senza che vi corrisponda un’adeguata profondità emotiva, che verrà recuperata solo sul finale.
La divisione idealistica del film in tre atti, adolescenza, età adulta e momento del ricor-do, non convince e conferisce poca incisività alla prima parte. Se gli interpreti principali – Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria, Pierfrancesco Favino e Micaela Ramazzotti – sono capaci di regalare una fragilità straordinariamente umana, non peccano di certo di bravura i giovani attori che interpretano la versione adolescente dei protagonisti, ma la loro recitazione è spesso urlata e sopra le righe.
Ma è forse l’esplorazione del tempo che pas-sa l’elemento più meritevole, anzi, il film sembra acquistare potenza proprio nella grazia e nella malinconica dimensione del ricor-do. Senza dubbio lo aiutano molto le musiche di Nicola Piovani.