«Gli anziani al centro del nostro cuore»
Case di riposo. Mentre infuria la polemica su alcune strutture sparse per l’Italia in cui gli ospiti sarebbero morti “di fame e di sete”, abbiamo chiesto a un’infermiera della Rsa “Fondazione Cella” di Broni di raccontarci come è cambiato il suo lavoro
“Te al centro del mio cuore”. Oltre ad essere un canto, è sempre stato uno dei miei pensieri. Da quando sono entrata a far parte del mondo sociassistenziale la mia mission è stata quella di affrontare ogni giornata lavorativa con il sorriso sulle labbra e con la positività che mi ha sempre contraddistinto. Infondere gioia e spensieratezza è la migliore medicina al mondo.
Ma ora?
Dal 21 febbraio, la mia, la nostra vita di operatori sanitari delle Rsa, le Residenze socio assistenziali che banalmente e riduttivamente sono chiamate ancora “case di riposo”, si è terribilmente modificata.
Restrizioni. È un termine che ci ricorderemo a lungo poiché ha radicalmente cambiato il nostro modo di agire. Ora si indossa una mascherina (e speriamo di averne perché è sempre più difficile reperire i famosi D.P.I., i Dispositivi di Protezione Individuale) e questo non permette ai nostri ospiti di vedere i nostri sorrisi, perché vi assicuro che quelli non mancano mai, anche in tempo di pandemia.
È un termine che ci ricorderemo a lungo poiché ha radicalmente cambiato il nostro modo di agire. Ora si indossa una mascherina (e speriamo di averne perché è sempre più difficile reperire i famosi D.P.I., i Dispositivi di Protezione Individuale) e questo non permette ai nostri ospiti di vedere i nostri sorrisi, perché vi assicuro che quelli non mancano mai, anche in tempo di pandemia.
La struttura dove lavoro ha deciso ben prima dell’entrata in vigore dell’ordina da anziani con pluripatologie. Per questo, seppur a malincuore, si è assunta la decisione di impedire le visite ai famigliari.
Gli operatori, però, non si sono persi d’animo e hanno cercato di sostituirsi il più possibile ai parenti.
Certo non è facile, ma si cerca con le parole di rassicurare e di trasmettere tranquillità. Gli educatori si prodigano per trovare momenti di relazione attraverso le video chiamate e così i figli, i nipoti, i fratelli riescono a vedere chi è ricoverato presso la nostra struttura e a scambiare qualche parola.
Spesso le lacrime solcano quei visi stanchi e con qualche ruga in più. Ma la certezza che sia da una parte sia dall’altra si stia bene, fa tornare subito il sorriso, anche se quello che manca è l’abbraccio, il tocco.
Il tocco. Questa è sempre stata per me un’altra parola magica. Stabilire un contatto fisico con il tuo interlocutore riesce talvolta a far tornare la calma in una persona particolarmente agitata: la mano sulla spalla come gesto di conforto per far capire che tu ci sei, che sei lì per loro; una carezza sul volto rende la giornata più serena.
E adesso? In questi giorni i contatti non ci sono più. Ora si parla con gli occhi, vero specchio dell’anima e che difficilmente ci fanno mentire. Quando guardi negli occhi una persona capisci quello che ti sta per dire ed occorre essere bravi a far capire agli ospiti che, nonostante le innumerevoli difficoltà, tutto andrà bene e che noi siamo lì per loro, che ci siamo, che non li abbandoneremo mai.
Esserci. Ecco un altro verbo fondamentale. Cosa vuol dire esserci in tempo di Coronavirus? Vuol dire trovarsi a vivere in una struttura dove si stanno attuando tutte le forme di contenimento possibili, dove si stanno eseguendo tutti i controlli richiesti da Regione Lombardia, dove si sta mettendo in campo tutta una serie di procedure da eseguire più e più volte al giorno per evitare di rompere quella catena protettiva che altrimenti farebbe partire velocemente il contagio.
Vuol dire lavorare ed essere presenti nonostante tutto. Perché usare la mascherina per otto ore dà fastidio e toglie il fiato, perché i guanti fanno sudare le mani, perché il disinfettante passato più e più volte sulla pelle inizia a bruciare, perché rientrare dai riposi per sostituire un collega che è in malattia sta diventando ormai quotidianità. Ma tutto questo lo si affronta senza pensarci un attimo, anche se la paura c’è perché siamo umani e abbiamo una famiglia a casa che ci aspetta, mariti, mogli, figli, genitori che stai tenendo distanti per proteggerli da questa “brutta bestia” che sta distruggendo nuclei famigliari, portandoci via amici e conoscenti.
In questi giorni, i media e i social riferiscono di strutture sanitarie dove gli ospiti verrebbero abbandonati a se stessi, addirittura lasciati “morire di fame e di sete” (parole ascoltate durante una nota trasmissione televisiva!), luoghi dove il virus si diffonde in maniera incontrollata.
Certo le criticità sono tante.
Reperire materiale sanitario in questo periodo è davvero difficile: ordini che vengono annullati, fornitori che chiamano perché neppure loro riescono a consegnare la merce.
Attimi di sconforto, perché dobbiamo essere protetti per proteggere a nostra volta.
Non siamo eroi, non siamo angeli, non siamo guerrieri.
Siamo, e questo lo dico con orgoglio e non solo da ora, semplicemente operatori sanitari: medici, infermieri, Oss, Asa che stanno affrontando questa emergenza nel miglior modo possibile, ma anche fisioterapisti, educatori, psicologi, animatori, personale addetto al servizio di cucina, manutentori, amministrativi.
Una squadra che coopera affinché gli ospiti stiano bene e non si sentano soli, perché potrebbero essere i nostri genitori, i nostri nonni, i nostri zii e sono e saranno sempre “al centro del nostro cuore”.
Michela Draghi – infermiera