«Il futuro dell’Europa è la speranza, non la guerra»
Il 41° viaggio apostolico del Papa che è tornato in Ungheria dal 28 al 30 aprile e ha scelto la perla del Danubio per parlare all’intero continente, dove «tornano a ruggire i nazionalismi»
In un mondo in cui «pare di assistere al triste tramonto del sogno corale di pace, mentre si fanno spazio i solisti della guerra», il ruolo dell’Europa «è fondamentale», a patto che sappia ritrovare la sua anima, quella forgiata dai padri fondatori. Fin dal suo primo discorso in terra d’Ungheria, dove è tornato un anno e mezzo dopo le sei ore passate nel Paese magiaro per la chiusura del Congresso eucaristico il 12 settembre 2021, prima di proseguire per la Slovacchia, Papa Francesco ha scelto la perla del Danubio per parlare all’intero continente, dove «tornano a ruggire i nazionalismi» e, anche a livello internazionale, la politica sembra essere «regredita a una sorta di infantilismo bellico».
Proprio il futuro del continente europeo, e in particolare la causa della pace – ha rivelato Francesco nel Regina Caeli dopo la Messa presieduta nella piazza Kossut Lajos di Budapest davanti a 50 mila persone – è stato il filo conduttore di tutto il suo 41° viaggio apostolico: «Santa Vergine, guarda ai popoli che più soffrono», la supplica di Francesco dopo i ringraziamenti a tutti coloro che hanno reso possibile il suo viaggio e al popolo ungherese per la sua calorosa accoglienza in questi tre giorni: «Guarda soprattutto al vicino martoriato popolo ucraino e al popolo russo, a te consacrati. Infondi nei cuori degli uomini e dei responsabili delle nazioni il desiderio di costruire la pace, di dare alle giovani generazioni un futuro di speranza, non di guerra; un avvenire pieno di culle, non di tombe; un mondo di fratelli, non di muri».
«La pace – il monito del discorso alle autorità – non verrà mai dal perseguimento dei propri interessi strategici, bensì da politiche capaci di guardare all’insieme, allo sviluppo di tutti: attente alle persone, ai poveri e al domani; non solo al potere, ai guadagni e alle opportunità del presente».
«In questo frangente storico l’Europa è fondamentale» – la tesi di Francesco – «perché essa, grazie alla sua storia, rappresenta la memoria dell’umanità ed è perciò chiamata a interpretare il ruolo che le corrisponde: quello di unire i distanti, di accogliere al suo interno i popoli e di non lasciare nessuno per sempre nemico».
«È dunque essenziale ritrovare l’anima europea» – l’appello: «L’entusiasmo e il sogno dei padri fondatori, statisti che hanno saputo guardare oltre il proprio tempo, oltre i confini nazionali e i bisogni immediati, generando diplomazie capaci di ricucire l’unità, non di allargare gli strappi».
«In questa fase storica i pericoli sono tanti; ma, mi chiedo, anche pensando alla martoriata Ucraina, dove sono gli sforzi creativi di pace?» – la domanda provocatoria.
«Penso a un’Europa che non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli». È il sogno del Papa per il nostro continente, esortato a non seguire la «via nefasta delle colonizzazioni ideologiche, che eliminano le differenze, come nel caso della cosiddetta cultura gender, o antepongono alla realtà della vita concetti riduttivi di libertà, ad esempio vantando come conquista un insensato diritto all’aborto, che è sempre una tragica sconfitta». No al «collateralismo con le logiche del potere», sì invece a «una sana laicità, che non scada nel laicismo diffuso, il quale si mostra allergico a ogni aspetto sacro per poi immolarsi sugli altari del profitto».
L’accoglienza «è un tema da affrontare insieme, comunitariamente, anche perché, nel contesto in cui viviamo, le conseguenze prima o poi si ripercuoteranno su tutti».
A conclusione del suo primo discorso, Francesco si è espresso in questi termini su un tema, quello dell’accoglienza, a cui occorre far fronte «senza scuse e indugi»: «È urgente, come Europa, lavorare a vie sicure e legali, a meccanismi condivisi di fronte a una sfida epocale che non si potrà arginare respingendo, ma va accolta per preparare un futuro che, se non sarà insieme, non sarà».
«Grazie per come avete accolto – non solo con generosità ma pure con entusiasmo – tanti profughi provenienti dall’Ucraina», l’omaggio dalla chiesa di Santa Elisabetta d’Ungheria a Budapest, durante l’incontro con i poveri e i rifugiati. E un altro appello all’accoglienza è stato quello lanciato nell’omelia della Messa presieduta nella piazza Kosssut Lajos di Budapest.
«È triste e fa male vedere porte chiuse» – la denuncia. L’elenco del Papa è lungo e dettagliato: «Le porte chiuse del nostro egoismo verso chi ci cammina accanto ogni giorno; le porte chiuse del nostro individualismo in una società che rischia di atrofizzarsi nella solitudine; le porte chiuse della nostra indifferenza nei confronti di chi è nella sofferenza e nella povertà; le porte chiuse verso chi è straniero, diverso, migrante, povero. E perfino le porte chiuse delle nostre comunità ecclesiali: chiuse tra di noi, chiuse verso il mondo, chiuse verso chi non è in regola, chiuse verso chi anela al perdono di Dio».
«Per favore: apriamo le porte!» – l’esortazione: «Cerchiamo di essere anche noi – con le parole, i gesti, le attività quotidiane – come Gesù: una porta aperta, una porta che non viene mai sbattuta in faccia a nessuno».
Un vero e proprio bagno di folla, quasi un anticipo della Gmg in programma ad agosto a Lisbona, è stato l’incontro con oltre 10 mila giovani radunati nel Palazzetto dello Sport di Budapest.
«Chi osa vince» – ha detto loro Francesco citando un proverbio ungherese per spiegare «come si fa a vincere la vita». Secondo il Papa, «ci sono due passaggi fondamentali, come nello sport: primo, puntare in alto; secondo, allenarsi», ma con l’allenatore migliore, che è Gesù: «Lui ti ascolta, ti motiva, crede in te, sa tirar fuori il meglio di te. E sempre invita a fare squadra: mai da soli ma con gli altri, nella Chiesa, nella comunità, insieme, vivendo esperienze comuni».
(Foto: Vatican Media/SIR)
«L’incontro con il patriarca Kirill si farà»
Durante il volo di ritorno da Budapest, i giornalisti hanno avuto un lungo colloquio con Papa Francesco che ha toccato vari temi come la guerra in Ucraina, i contatti con il Cremlino e il dialogo ecumenico, l’impegno della Santa Sede, il ritorno in patria dei bambini ucraini portati in Russia durante la guerra e anche la sua salute, dopo il ricovero al “Gemelli” la settimana precedente la Domenica delle Palme. Sul colloquio con il premier Viktor Orban e con il metropolita russo ortodosso Hilarion il Pontefice ha ribadito che «la pace si fa sempre aprendo canali, mai si può fare con la chiusura. Invito tutti ad aprire rapporti, canali di amicizia. Questo non è facile. Con Orban ho fatto lo stesso discorso che faccio in genere con tutti». Ha anche confermato che l’incontro con il patriarca Kirill, “contraltare” religioso del presidente russo, Vladimir Putin, si farà anche se il preannunciato faccia a faccia dello scorso anno era saltato proprio a causa dello scoppio della guerra e i rapporti ecumenici sembravano fortemente minacciati. Significative anche le parole sui migranti, sempre sulla linea dell’accoglienza e delle porte aperte ma con un nuovo monito all’Europa: «L’immigrazione è un problema che l’Europa deve prendere in mano. Sono cinque i Paesi che soffrono di più: Cipro, la Grecia, Malta, l’Italia e la Spagna. Se l’Europa non si fa carico di questa situazione, il problema sarà di questi soltanto. L’Europa deve far sentire che l’Unione europea è anche in questo». Il Papa, poi, ha assicurato l’impegno diplomatico del Vaticano per la restituzione dei bimbi ucraini deportati nel conflitto. «La Santa Sede – ha detto – ha fatto da intermediaria in alcuni scambi di prigionieri, tramite l’ambasciata. Questi sono andati bene. Penso che può andare bene anche quest’altro. La Santa Sede è disposta a farlo perché è giusto. È un problema di umanità prima che un problema di un bottino di guerra o di trasloco (deportazione) di guerra. E dobbiamo aiutare affinché questo non sia un casus belli, ma un caso umano. Tutti i gesti umani aiutano, invece i gesti di crudeltà no».