Il pesce d’oro di Cecilia
di Maria Pia e Gianni Mussini
Dovendo curare il carteggio tra il poeta Clemente Rebora e Vanni Scheiwiller, il raffinatissimo editore di tanti colorati libretti “All’Insegna del Pesce d’Oro”, Gianni andò più volte ad Apice: l’archivio dell’università di Milano che di Scheiwiller accoglie tutte le carte. Trattandosi del più grande dei piccoli editori, quello che ha favorito la piena valorizzazione di molti dei principali autori novecenteschi (lo stesso Rebora, Sbarbaro, ma anche Montale e molti altri), potete immaginare l’abbondanza delle carte catalogate.
A un certo punto in uno dei faldoni Gianni scovò le lettere che aveva spedito all’editore, tutte rigorosamente scritte a mano. Riguardavano le pubblicazioni reboriane a cui aveva collaborato negli anni Ottanta e Novanta. Un bel pezzo di vita, diciamo cinque lustri. Tra le pieghe di una di quelle lettere saltò fuori un disegno di “Scheiwiller che pesca i pesci d’oro”, eseguito dalla nostra Cecilia allora quattrenne, dopo aver ricevuto da parte di Vanni un libretto con dedica autografa corredata dal largo immancabile “pesce d’oro” destramente effigiato…
In quel periodo Scheiwiller aveva qualche volta frequentato casa nostra, e viceversa, per via di Rebora ma anche di Cesare Angelini, su cui pure Gianni aveva dato una mano. Così i nostri bambini impararono a considerare familiari quei nomi e a considerare lo stesso Vanni un amico, anzi un candido estrosissimo compagno di giochi. E lui non si sottraeva ma amava scherzare con la dolce Cecilia e Giacomo “il Brighella”, come lo chiamava.
Fece in tempo a conoscere anche Lorenza, nata nel 1989. Allora, complimentandosi, notò affettuosamente come facessimo più figli noi che libri lui…
Di famiglia cattolica, originaria della Svizzera tedesca, si professava credente ma non praticante e politicamente “laico” (però nostalgico della grande stagione della Milano “cattolica e illuministica”). Eppure nessuno come lui si diede da fare per far conoscere l’ultimo Rebora, il poeta ormai sacerdote che molti critici (ma non Pasolini) consideravano puramente devozionale e opposto a quello incandescente della stagione che precedette la conversione.
Ma è altra la prospettiva attraverso cui va colto il rapporto di Vanni con Dio. Era un inesauribile inventore di giochi di parole e spiazzanti bon mots. Proprio il gioco di parole, tra forma e significato, era per lui più di un semplice divertimento, esprimendo invece la corrispondenza con un verbo che, espressione del grande Verbo da cui tutto è partito, dà senso alla vita. Le battute, come del resto le stesse poesie che pubblicava e i quadri astratti che adorava, erano un “giocare” con quanto di più bello Dio abbia donato all’uomo: un linguaggio in grado di ricomporre la babele del mondo.
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