Il vescovo: «Cerchiamo insieme la soluzione per il bene dei cittadini»
L’inchiesta. Ospedale di Tortona. Nel dibattito aperto dal nostro giornale interviene Mons. Vittorio Viola che ci offre il suo contributo «per aprire un dialogo pacato e forte, critico e costruttivo»
È di grande attualità il dibattito aperto sul nostro giornale attorno al futuro dell’ospedale di Tortona. Da più parti, nonostante una preoccupante recrudescenza dei contagi da Covid-19, si auspica che ritorni a essere un presidio di riferimento per la sanità locale. I tortonesi sanno che il loro ospedale ha già pagato un prezzo altissimo in tempo di lockdown. I malati hanno il diritto di godere delle prestazioni mediche che il nosocomio può offrire, senza essere costretti a rivolgersi ad altre strutture della zona. È una speranza che anche la Chiesa di Tortona vuole fare sua?
«La presenza dell’ospedale in città è di fondamentale importanza. Abbiamo potuto leggere sul nostro giornale i numeri sia del bacino d’utenza sia dell’impegno economico da parte della Regione e della Fondazione della Cassa di Risparmio di Tortona: sono dati che da soli dicono la rilevanza che il nostro presidio ospedaliero ha sempre avuto. Ora più che rimpiangere ciò che è stato o continuare a cercare responsabilità di scelte sbagliate e di opportunità perse – dalle quali dobbiamo tuttavia imparare – credo che questo sia il momento nel quale siamo chiamati ad unire le forze per riuscire a rappresentare in Regione l’evidenza di un bisogno e cercare insieme una soluzione che abbia a cuore non un interesse di parte, politico od economico che sia, ma il bene dei cittadini. Abbiamo forse capito l’inutilità dell’antagonismo tra Tortona e Novi, che purtroppo, come spesso accade in queste situazioni, è ben descritta dall’immagine dei capponi di Renzo di manzoniana memoria. Siamo stanchi, a volte nauseati, di una politica che affronta i problemi con interessi e pregiudizi a prescindere dal merito delle questioni. Abbiamo ora, conti alla mano, la prova – ne avevamo davvero bisogno? – che il depotenziamento dell’ospedale di Tortona non riduce ma aumenta, a motivo degli esborsi per il fuori regione, le spese per la sanità piemontese. È il momento per ragionare insieme a partire dal basso, dai comuni e dalle associazioni del nostro territorio, vale a dire dalle realtà che ogni giorno si confrontano con i bisogni reali della popolazione. Non per contrapporsi ai livelli superiori chiamati ad operare scelte di sistema ma per aprire insieme un dialogo pacato e forte, critico e costruttivo. In tal senso la diocesi desidera dare il suo contributo».
Che messaggio si sente di rivolgere a quei cittadini che hanno la percezione di non poter più contare sul loro ospedale?
«In questi anni abbiamo purtroppo disperso il patrimonio di fiducia che i cittadini avevano nei confronti dell’ospedale, un patrimonio che era frutto sia di ingenti investimenti, sia – e, forse, soprattutto – della professionalità e della dedizione di tanti medici, infermieri e operatori. Fin dalla chiusura dei primi reparti è passata troppo in fretta l’idea che ormai l’ospedale non c’era più. Questo ha certamente aggravato la situazione. Nello stesso tempo non tutto è andato perduto: il fondo che in poco tempo si è costituito a favore dell’ospedale nei mesi di lockdown ne è la dimostrazione. Non voglio illudermi, ma ho l’impressione che qualcosa si stia muovendo nella logica del collaborare insieme per trovare una soluzione. Vedo sia nelle amministrazioni comunali, di Tortona e del territorio, sia nella manifestazione di interesse di privati, questa volontà. Come per tutto ciò che riguarda il bene comune, è fondamentale che tutti noi abbiamo a cuore la situazione dell’ospedale, informandoci, facendo sentire la nostra voce: le pagine di questo giornale sono uno spazio disponibile al confronto. Scuotiamoci di dosso una certa rassegnata disillusione che questa nostra società individualista finisce per alimentare e riscopriamo l’importanza di lavorare insieme per il bene di tutti. Non dimentichiamoci che chi paga il prezzo di questa situazione sono, come sempre, le classi meno abbienti. Il grado di civiltà di una società si misura sulla capacità di sostenere i deboli e gli ultimi».
Essere accanto al malato come «presenza e azione della Chiesa per recare la luce e la grazia del Signore a coloro che soffrono e a quanti se ne prendono cura (La pastorale della salute nella Chiesa italiana, n.19)» è un compito prezioso. La nostra Diocesi nei mesi di marzo e di aprile ha manifestato in vari modi la sua concreta vicinanza ai pazienti che avevano contratto il Coronavirus.
Ai malati ricoverati in ospedale. Ma anche a quei fratelli, a quelle famiglie colpite dal dramma di un lutto. Facciamo un po’ di cronistoria. Vuole ripercorrere brevemente per i lettori ciò che è stato fatto?
«Nei giorni terribili della chiusura, mi arrivavano segnalazioni di persone i cui familiari erano ricoverati in ospedale: oltre alla preoccupazione per la loro salute, esprimevano il dramma del non poter stare loro accanto, senza nemmeno la possibilità di una telefonata. Spesso erano persone anziane che forse non si rendevano nemmeno conto dell’impossibilità di ricevere visite. Temere che pensassero di essere state abbandonate era davvero straziante. C’era la consapevolezza che quelli potevano essere gli ultimi giorni di vita: non potersi dirsi il bene, chiedersi perdono, salutarsi era insostenibile e ha lasciato profonde ferite. Il personale sanitario ha operato al di sopra delle sue forze, non facendo mai mancare il report giornaliero ma il cuore reclamava altro. Il servizio ordinario dei cappellani era stato, per ovvi motivi di sicurezza, sospeso in tutti gli ospedali. Tuttavia, grazie alla disponibilità dell’amministrazione comunale e del commissario straordinario per l’ospedale, abbiamo offerto la disponibilità di un sacerdote, l’orionino don Pietro Sacchi, per garantire una presenza accanto ai malati e un canale di comunicazione con i familiari: non si può immaginare il valore di una video-chiamata in quella situazione.
Significativa è stata anche la presenza di un mio confratello, P. Andrea Dovio, frate minore di Assisi, che in qualità di medico ha offerto il suo servizio volontario per più di due mesi. Anche la vicinanza attraverso le quotidiane trasmissioni di momenti di preghiera è stata per tutti noi un conforto».
“Visitare i malati” è una delle opere di misericordia corporale. In una società che tende a escludere l’idea della malattia e, soprattutto, della morte, con quale approccio un credente può portare conforto a chi è in un letto di ospedale?
«La sofferenza è un luogo sacro, occorre anzitutto rispetto. La malattia e la morte sono per ogni uomo momenti di verità nei quali ci si confronta con le domande fondamentali sul senso della nostra vita. Anche la nostra fede è stata messa alla prova. Forse abbiamo messo anche Dio sul banco degli imputati. Ma è proprio qui che l’annuncio della Pasqua mostra tutta la sua potenza: è l’unica parola che apre ad una speranza certa, che offre la possibilità di trasformare il dolore in amore, vera medicina per il cuore dell’uomo.
Si sta accanto a chi soffre non con la presunzione di avere risposte al dramma vissuto da altri, ma come il buon samaritano, immagine di come Gesù si è fatto carico della nostra sofferenza, del peccato, della morte per liberarci. È una continua scuola di amore».
Matteo Colombo