Italiani e non italiani
Di Ennio Chiodi
Cosa deve fare – di questi tempi– una persona per essere considerata parte integrante e integrata di una società? Che passi deve compiere e che ostacoli deve superare per essere accolta a pieno titolo all’interno di un gruppo sociale, di una comunità, di una Nazione? Per essere accolta come cittadino tra i cittadini, nel rispetto di indirizzi e valori quali l’inclusione, l’eguaglianza e la solidarietà, sanciti dalla Costituzione e patrimonio proprio di chi, ad esempio, si professa cristiano? Per gli stranieri giunti nel corso degli anni in Italia il cammino per ottenere il riconoscimento della cittadinanza è un tortuoso percorso a ostacoli che si sviluppa lungo direzioni diverse. Il tragitto più diretto è quello che passa attraverso lo “jus sanguinis”: sono cittadini italiani i figli di genitori italiani, anche se nati all’estero. Punto! In alcuni casi questo diritto si acquisisce per discendenza, divenendo di fatto ereditario, come avviene per i giocatori di talento arruolati nella nostra nazionale di calcio. Spesso devono studiare a lungo l’italiano e magari qualche rudimento di storia del loro “nuovo-vecchio” Paese. Parlano invece correttamente la lingua italiana milioni di giovani che qui studiano, lavorano, frequentano le associazioni, pagano le tasse e contribuiscono alla continuità delle nostre pensioni, ma che italiani non sono. Chi è nato in Italia potrà diventare nostro connazionale, ma solo al compimento dei 18 anni e a particolari condizioni. Di una riforma del diritto di cittadinanza che introduca lo “jus soli” si discute da anni, ma ideologia, intolleranza e un latente razzismo dettano le linee guida. Il tormentone politico dell’estate è stato la richiesta di introdurre una terza scelta che potrebbe facilitare il cammino dei nostri nuovi connazionali: lo “jus scholae”, la possibilità cioè di concedere la cittadinanza ai ragazzi e alle ragazze che abbiano compiuto in Italia un ciclo significativo di studi. Nulla di più naturale, sembrerebbe, considerando che circa 1 milione di studenti – il 10,3% degli iscritti alle nostre scuole – non ha la cittadinanza italiana. «Non è una priorità» – è stato più volte affermato da esponenti politici e di governo. Eppure non ci vorrebbe particolare impegno: da anni si disperdono in Parlamento proposte di legge simili tra loro che basterebbe coordinare e approvare. Ma c’è altro da fare: bilanci e manovre, certo, ma anche nomine e spartizioni che richiedono estenuanti trattative. Nel frattempo migliaia di giovani formati in Italia, con investimenti e risorse italiane, se ne andranno portando con sé le competenze acquisite. La grande opportunità che ci offre l’accoglienza a pieno titolo di nuovi cittadini integrati e consapevoli, può attendere.
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