Kamala: yes, we can!
Lo slogan che ha caratterizzato la campagna elettorale di Barack Obama calza a pennello per descrivere l’elezione a vice presidente degli Stati Uniti di Kamala Harris.
Di lei si è detto di tutto e di più, conosciamo i dettagli della biografia, del curriculum scolastico e del cursus honorum, tuttavia forse non abbiamo compreso pienamente la rivoluzionarietà di questa donna, non bianca, figlia di immigrati, di un’avvenenza normale, sposata con un uomo (divorziato, con due figli) di religione ebraica: quanto di più lontano dallo stigma Wasp che le signore della Casa Bianca hanno sempre incarnato.
Michelle Obama costituì un’illustre eccezione: donna di grande carisma, ha tuttavia sempre camminato un passo dietro al marito e, anche se molte delle riforme dell’amministrazione Obama furono da lei ispirate, si parlò soprattutto del suo orto e della sua passione per l’agricoltura biologica, non della sua strategica intelligenza.
Hilary Clinton fu a un soffio dalla presidenza, sfuggitale anche per quell’algida aura da upper class che la contraddistingue, e temo che sarà ricordata non tanto come brillante avvocato, senatrice e segretario di Stato, quanto per aver incassato con diplomatico aplomb le scorribande extraconiugali di quel farfallone di Bill, che difese a spada tratta durante l’impeachment, salvandogli la poltrona nello studio ovale.
Kamala Harris, invece, non ha un uomo sul quale riversare la propria luce: il marito ha già annunciato che si prenderà un periodo di riposo per ricoprire solo il ruolo di “second gentleman” e, da quanto abbiamo potuto vedere in questo primo scorcio di presidenza, anche Joe Biden non sembra far impallidire la stella di Kamala: pare abbastanza evidente chi sarà a indossare realmente i pantaloni alla Casa Bianca.
Il segreto dell’empatia di Kamala sta, più che nei suoi discorsi ufficiali e nell’inappuntabile preparazione culturale e politica, nella spontaneità, come nella sua prima immagine di vice presidente eletto: in tuta da jogging, sudata, scarmigliata, urlante al cellulare, con il tono di una ragazzina: «We did it, Joe, we did it!» («Ce l’abbiamo fatta, Joe!»): ci siamo così subito sintonizzati con il suo umanissimo entusiasmo.
“Yes, we can”, “Sì, noi possiamo”: questo è il messaggio che è arrivato alle giovani donne di tutto il mondo e che ha commosso quelle meno giovani: si può essere don-ne che lavorano alacremente per realizzarsi, sfruttando la propria intelligenza e non il proprio aspetto, donne innamorate ma non disposte ad annullarsi, donne “di potere”, ma anche donne di famiglia, donne alle quali si stanno aprendo inaspettate prospettive.
Kamala docet: «Sebbene io sia la prima donna a ricoprire questo incarico, non sarò l’ultima».
silviamalaspina@libero.it