L’8 marzo delle donne ucraine
Sono badanti, babysitter, colf che ormai fanno parte delle nostre famiglie e le aiutano nella quotidianità. Ora tocca a noi aiutare loro, anche solo con un abbraccio, per farle sentire a casa
Raissa aspetta ogni giorno, ogni ora notizie del figlio, militare di carriera dell’esercito ucraino. Dice: «Da Kharkiv, troppo vicino al confine russo, subito dopo l’arrivo dei carrarmati ha preso la macchina, ha caricato moglie, figlia, suocera e il gatto per cercare di raggiungere la mia casa che si trova più a ovest. Mia figlia invece è sposata a Mosca: lì non ha problemi. Ma è impossibile raggiungerla, né in auto, né in treno». Raissa è in Italia da 17 anni (ne aveva 45 quando è arrivata), nei primi tre anni non è potuta mai tornare in Ucraina. La pandemia ha bloccato tutto anche negli ultimi tre anni. Il marito l’ha raggiunta dopo, ora hanno entrambi il permesso illimitato di soggiorno. Vivono in affitto, in una stanza con uso cucina. Fanno le pulizie, curano anziani, fanno le notti e, quando va bene, riescono ad avere una sola persona da badare e possono quindi stare nella casa dell’anziano o dell’anziana che ha bisogno di loro. Mandano quasi tutti i soldi ai figli. Fanno tutti così: dall’Italia sono partiti verso la patria 141 milioni di euro nel solo primo semestre del 2021.
Irina è di Kherson vicino al mare di Azof. Lei fino ad ora ha fatto la pendolare con l’Ucraina: sei mesi qui, sei mesi là. Silvia, originaria dell’Azerbaijan, è arrivata nel 2014 da Donetsk. La sua paura non è solo di oggi: da otto anni nella sua regione, il Donbass, c’è la guerra. Tania ha qui anche la mamma e il papà, che si sono comprati una casetta a Pizzale, e la sorella Olena. È arrivata 15 anni fa, mamma e sorella erano già qui: «Allora mio figlio aveva 4 anni. Avevo dovuto lasciarlo là con il papà. Mi ha raggiunta per fare qui le scuole, dalle elementari alle superiori, ma poi è voluto tornare in Ucraina. Ha 19 anni e ha aperto un negozio. Dice che da loro, verso il confine con la Polonia, è tutto tranquillo. Mio marito lo è un po’ meno. Sono comunque intrappolati lì. La gente compra più cibo possibile, i supermercati sono quasi vuoti».
Basta ascoltare i racconti di queste persone, sentire le loro telefonate che, pur in un’altra lingua, denunciano preoccupazione, angoscia. Sono genitori separati dai figli, figli separati dai genitori, papà, mamme che hanno anche bambini ancora piccoli dentro la guerra. Soprattutto mamme. Perché se la comunità ucraina è la seconda straniera per numeri in Italia (236 mila persone, su 800 mila residenti nella Ue), sono in stragrande maggioranza le donne (l’80% del totale) ad aver lasciato il loro Paese, già molti anni fa.
«Le fabbriche chiudevano, i nostri mariti perdevano il lavoro, che dovevamo fare?», dicono ricordando con amarezza. Erano le donne ad avere più possibilità di trovare lavori domestici e di cura in Italia e nel resto d’Europa. Hanno deciso di partire, tante volte senza saper la lingua che, tuttavia, hanno imparato in fretta. Più dei loro uomini che le hanno raggiunte dopo. Sono loro in particolare ad aver sostenuto la famiglia, da lontano. Se in Italia sono 92 mila gli ucraini impiegati come lavoratori domestici regolari (nel sommerso c’è ancora molto), il tasso di occupazione delle donne è del 66%.
E sono state sempre loro, le donne, a diventare indispensabili per tante, tantissime nostre famiglie. Badanti, babysitter o colf hanno anche oggi un ruolo importantissimo per il ménage familiare di tanti di noi. I dati Istat non mentono: il 65% dei cittadini ucraini lavora nei servizi alla persona. Il resto è così distribuito: il 15% nei servizi e nella ristorazione, il 9% nei trasporti e nei servizi alle imprese, il 9% nell’industria, il 2% in agricoltura, caccia e pesca.
Oggi quelle donne che da decenni ormai contribuiscono con tanti sacrifici a sostenere l’economia del loro Paese (e un po’ anche del nostro) sono disarmate, inermi, difronte e dentro un teatro di bombe e terrore che certamente loro non hanno voluto. Non hanno schiacciato loro i bottoni della guerra, di questa follia, ma restano ferme per provare, ancora una volta, a portare il loro aiuto.
L’affetto di tutti noi italiani nei confronti delle nostre preziose signore di casa e dei loro cari che stanno in Ucraina si è mostrato subito. Sono famiglia con noi e non poteva essere diverso. In questi giorni di vigilia dell’8 marzo in cui, guerra permettendo, ci si ferma a riflettere sulle donne e sul ruolo che cambia insieme al mondo, un pensiero speciale dovremmo dedicarlo proprio a loro, alle donne ucraine. In un’organizzazione sociale in cui poco tuttora si fa per aiutare, in termini di welfare, le donne che sono le prime costrette a rinunciare al lavoro e quindi a un ruolo più pubblico quando ci sono bambini piccoli o anziani da curare, queste ex ragazze venute dall’Ucraina, che stanno invecchiando accanto a noi, con noi, continuano a offrirci una mano preziosa. Un grazie speciale, un mazzo di fiori e un abbraccio vero le aiuteranno, speriamo, a sentirsi un po’ più a casa.
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