«L’8 settembre della Medicina»
Medici di base: dove eravamo rimasti? La testimonianza di Michele Grandi
VOGHERA – In questi mesi abbiamo parlato molto del lavoro dei medici e del personale sanitario che nelle corsie degli ospedali si sono dedicati alla cura dei contagiati da Coronavirus. Un ruolo importante lo hanno avuto anche i medici di base che sono stati il primo anello della catena che ha consentito di identificare quali pazienti trattare al domicilio e quali sottoporre al tampone o inviare in ospedale.
A Michele Grandi, medico di Medicina Generale e di Guardia Medica a Voghera, abbiamo chiesto cosa vuol dire essere “medico di famiglia” in tempo di Coronavirus.
«Distinguerei un aspetto professionale da uno personale. Dal punto di vista della professione, la sensazione che è circolata tra noi medici è stata fin da subito quella di trovarci di fronte a un virus ad elevata contagiosità, che causava una patologia per certi aspetti nuova, che coinvolgeva più organi e apparati e che causava il decesso con meccanismi non del tutto noti (probabilmente non solo per complicanze respiratorie ma per il sopraggiungere di fenomeni tromboembolici): per questi motivi non esistevano cure e ci siamo sentiti impotenti. Questa sensazione di impotenza si traduceva, sul piano dell’emotività, in un sentimento di sconforto e paura, non solo di essere contagiati perché la Regione, attraverso l’ATS ci aveva fornito pochi e inadeguati presidi di protezione, ma di non saper dare una risposta al paziente per fronteggiare la situazione di sofferenza in cui si trovava. Infatti, i numeri telefonici istituiti per l’emergenza erano spesso inaccessibili per il sovraccarico di chiamate, i tamponi a domicilio non si effettuavano, al paziente veniva sconsigliato di recarsi in Pronto Soccorso e le indicazioni fornite a noi medici di base erano di non venire a contatto con pazienti sospetti per non contagiarci. Dovevamo gestire le situazioni solo telefonicamente. A tal proposito ricordo le telefonate drammatiche che ho ricevuto da parte di chi faceva fatica a respirare, le difficoltà a chiamare il Servizio di Emergenza e gli interminabili tempi d’attesa dell’intervento delle ambulanze. In quel periodo mi venivano alla mente i racconti dei nostri nonni che avevano vissuto la confusione e l’assenza di indicazioni precise all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943: ebbene, io definirei la situazione che ho vissuto in quel periodo come l’8 settembre della medicina del territorio. Fortunatamente ora le cose sono migliorate: c’è più organizzazione sul territorio e, anche in assenza del vaccino o di farmaci antivirali, è stata verificata l’efficacia di alcuni antibiotici, antireumatici e antitrombotici nel prevenire le complicanze letali dell’infezione. L’auspicio è che per il futuro sia riqualificata la medicina del territorio anche attraverso l’impiego della telemedicina».
Dal 23 marzo sono state istituite dalla Regione Lombardia, le Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA). «Sono presidi sanitari – ha spiegato Grandi – costituiti da medici attivi ogni giorno dalle 8 alle 20, che hanno la funzione di recarsi al domicilio di pazienti Covid-positivi o con sintomi sospetti da Coronavirus. Personalmente ho avuto modo di apprezzare la competenza e la diligenza dei colleghi che operano nelle 5 USCA della provincia di Pavia (Chignolo Po-Belgioioso-Pavia, Garlasco, Vigevano, Stradella e Voghera)».
Daniela Catalano