«La mia Africa: ritorno alle origini»
Murayi 1971-2021: una parrocchia tortonese in terra d’Africa è il libro che don Livio Vercesi, parroco a San Pietro a Novi Ligure, già missionario “fidei donum”, ha scritto per il 50° di fondazione della comunità africana. Noi lo abbiamo intervistato
Don Livio Vercesi, classe 1941, sacerdote dal 1964, dal 1972 al 1978 è stato missionario “fidei donum” a Murayi, in Burundi, parrocchia “aggiunta” della Diocesi di Tortona in terra d’Africa. Oggi è parroco a San Pietro a Novi Ligure, realtà compresa nella Comunità Pastorale “Santa Teresa di Calcutta”, insieme alle parrocchie di Sant’Andrea e di San Nicolò.
Lo scorso 19 dicembre, presso la chiesa di San Pietro, è stato presentato il suo libro Murayi 1971-2021: una parrocchia tortonese in terra d’Africa in occasione del 50° di fondazione della comunità ecclesiale africana.
Perché nel 1972 ha deciso di andare in una parrocchia che si trovava in Burundi, in un altro continente?
«Per comprendere quei momenti bisognerebbe riprendere quei tempi. Non dobbiamo dimenticare che prima del 1972 c’è stato il 1968, un movimento che noi adesso abbiamo in qualche modo conservato come un polverone, ma non lo era: piuttosto, si trattava di togliere la polvere dai grandi ideali che la gioventù ha sempre sentito ma che sembravano un po’ sepolti. Questi ideali hanno fatto da lievito, e sono saltati fuori preti di valore, non soltanto in Africa».
Oggi, come altre volte nel corso della storia, la Chiesa sembra dover superare alcune difficoltà: nel Medioevo, ad esempio, è stata salvata prima dai Benedettini, e poi dai Domenicani e dai Francescani. Nel XXI secolo sarà salvata dai missionari?
«Sicuramente, perché il tema della “missione” viene fuori dal Concilio Vaticano II, ed è la lettura attualizzata del Vangelo, il quale non è altro che un “annuncio” che, come tale, va portato: ecco la “missione”».
Questo annuncio lei lo ha portato anche qui, in Italia, dopo il ritorno dall’Africa? Considera Novi Ligure, dove ora lei è parroco, una “terra di missione”?
«Sì, ma bisogna che facciamo attenzione perché parole come queste rischiano, per esempio, di innescare una polemica che non vuole esserci.
Dietro il discorso che sto facendo non c’è nessuna polemica. Il Signore ha detto “Andate”, “Annunciate”, “Predicate il Vangelo”, ma non ha detto “agli europei” o “agli africani”: ha detto “a tutto il Mondo”.
Ho scelto di compiere la “missione” in Africa perché era un sogno, alimentato dai racconti dei missionari che, quando ritornavano, ci parlavano di cose meravigliose, di popolazioni che riempivano chiese troppo piccole per contenerle; soprattutto, queste popolazioni avevano bisogno di un aiuto sociale (faccio solo un esempio: la necessità di scuole) per cui la sensibilità mia, e quella di altre e altri con me, diceva: “Vai: c’è da fare, c’è bisogno”. In tanti siamo andate e andati in Africa non perché eravamo eroi, ma perché cercavamo qualcosa di bello, e abbiamo incontrato l’Africa, un ritorno alle origini».
Lei prima ha parlato di “annuncio”, che di fatto è “evangelizzazione”: adesso userebbe ancora questo termine?
«Si è discusso molto in questi tempi su questa parola perché, volere o no, è un po’ la sintesi del cosiddetto “mandato”, quello che il Signore Gesù ha dato agli Apostoli. L’evangelizzazione, cioè diffondere e far conoscere il Vangelo, è il principio fondamentale. Qui da noi, in Europa, in Italia, l’evangelizzazione acquista un significato molto particolare, perché più che una “prima evangelizzazione” è una “ri-evangelizzazione”: una seconda, se non una terza, riproposta e riannuncio del Vangelo».
Andrea Scotto