La vita è tutta un puzzle

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Di Arianna Ferrari e Andrea Rovati

LEI

Mi chiedo a volte se nella nostra famiglia non ci sia una sorta di masochismo di coppia. La vita è già costellata di problemi e situazioni difficili da gestire. L’arte della pazienza e dell’incastro la esercitiamo già per lavoro e per far coincidere turni e reperibilità con tutto il resto. Per cui, tornando all’incipit, mi domando come mai anziché rilassarci sul divano davanti alla tv scegliamo di spaccarci la testa a fare puzzle. Insomma, il dubbio sul fatto che possiamo avere un problema mi viene. In entrambe le case abbiamo due tavoli. Uno in cucina che è quello usato quotidianamente, l’altro in sala che è nato dall’idea di essere destinato ai convivi con ospiti. Peccato che questa sua primigenia funzione sia stata snaturata dalla perenne presenza di un puzzle. Osiamo definirci esperti e anche attrezzatissimi. Tappeto tecnico da stendere sulla superficie, serie di porta pezzi professionali e l’indispensabile attrezzatura per arrotolare e spostare l’opera finita. Dove?! Su un terzo “tavolo” (in realtà è un’asse su cavalletti): qui si procederà all’incollatura e incorniciatura. Siamo molto metodici con una sequenza e dei ruoli ben precisi. Partiamo sempre dal bordo e questa è la prima cernita dei pezzi, poi in base al tema scegliamo il criterio di suddivisione successivo. Ognuno di noi si occupa di una parte diversa del puzzle e ovviamente nessuno dei due può metter becco su ciò che l’altro sta facendo a meno che non ci sia un’esplicita richiesta d’aiuto. Noi giochiamo e ci divertiamo così.

arifer.77@libero.it

LUI

Un mappamondo del XVII secolo o la Scuola di Atene? Nelle sere d’inverno, più che a un inutile giro di telecomando con relativo dormiveglia, non di rado ci viene voglia di dedicarci a un puzzle. C’era già quando eravamo bambini, è un passatempo antico nato dall’idea di un cartografo inglese nel 1760 e ha attraversato tutta la nostra vita; ha dovuto subire la concorrenza di giochi da tavolo più moderni, a loro volta soppiantati da Playstation e perfidi telefonini, ma è sopravvissuto e gode dell’amore di una cerchia (in verità non così ristretta) di appassionati tra cui noi ci annoveriamo, sorretti dall’orgoglio identitario e un po’ snob di una riserva indiana. La scelta del soggetto non è mai facile ma poi panno di feltro nero sul tavolo, lampada accesa, lente d’ingrandimento a portata di mano e si comincia. Appena aperta la busta, l’odore di cartoncino e la polvere azzurrina dei pezzi ritagliati danno già dipendenza. È un lavoro certosino che richiede pazienza ma svuota la mente (e certe volte ce n’è proprio bisogno). Certo, ci vorranno decine di ore, ricordiamo la fatica che ci è costata qualche alba veneziana, ma ne sarà valsa la pena anche perché si finisce col conoscere in modo approfondito il soggetto: delle Nozze di Cana del Veronese ci sono ormai familiari pure gli uccelli in cielo e i cagnolini sotto il tavolo, per non parlare dei broccati dei commensali. E la fine è sempre la stessa: adesso basta, mi va insieme la vista e ho la nausea… no dai, ancora un ultimo pezzo!

andrea.rovati.broni@gmail.com

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