«La vita è un diritto, non la morte»

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La Corte Costituzionale ha dichiarato non rispondente ai requisiti costituzionali il referendum sul reato di omicidio del consenziente. «Non sarebbe preservata la tutela minima necessaria»

La scorsa settimana la Corte Costituzionale ha dato parere favorevole a cinque degli otto referendum abrogativi promossi dalla Lega e dai Radicali. E tutti in materia di giustizia.

Ha, invece, dichiarato non rispondenti ai requisiti costituzionali quelli che puntavano ad abolire il reato di omicidio del consenziente, a depenalizzare la coltivazione della cannabis e a introdurre la responsabilità civile diretta dei magistrati.

I cinque approvati riguardano la legge Severino, in particolare il testo unico in materia di candidature, la limitazione delle misure cautelari, la separazione delle funzioni dei magistrati e l’eliminazione delle liste di presentatori per l’elezione dei togati del Csm.

Sul primo dei tre esclusi – il reato di omicidio del consenziente – erano state espresse serie perplessità da molti giuristi per il suo contenuto considerato inaccettabile.

Come ha spiegato al SIR Assuntina Morresi, presidente del “Comitato per il No all’omicidio del consenziente”, nel quesito referendario proposto c’era in gioco «una questione antropologica, una concezione dell’umano, dove l’autodeterminazione è condizione per la propria libertà e la realizzazione di sé. Il pieno controllo sulla propria esistenza, e quindi anche sulla propria morte, ha a che fare con la personale idea di vita e di libertà e non riguarda la cura di una malattia o questioni di etica medica». La Corte ha dichiarato che in base a quanto richiesto «non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili».

Lo stesso presidente della Corte Costituzionale, Giuliano Amato, è stato “ferito” dalle reazioni scomposte del comitato promotore perché il tema dell’omicidio del consenziente, anche se fisicamente sano, è stato volutamente confuso dai sostenitori del referendum con la campagna sull’“eutanasia legale”.

E il quesito «apre all’impunità penale di chiunque uccide qualcun altro con il consenso, sia che soffra sia che non soffra».

Anche il comitato “Family Day – Difendiamo i nostri figli”, guidato da Massimo Gandolfini, ha espresso soddisfazione per la decisione presa: «È stata evitata una deriva mortifera che pone su un piano inclinato malati, disabili e anziani.

È la vittoria della cultura della vita contro la cultura dello scarto da sempre denunciata da Papa Francesco».

Il Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, all’indomani della pronuncia della Consulta sul referendum, ha pubblicato una riflessione sul valore inviolabile della vita umana, a partire dal Magistero più recente di Papa Francesco, nella quale ribadisce che «il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia non sono forme di solidarietà sociale né di carità cristiana e la loro promozione non costituisce una diffusione della cultura della cura sanitaria o della pietà umana».

“Siamo entrati nel mondo attraverso una famiglia genitoriale – si legge nella riflessione – che per prima si è presa cura di noi, ma restiamo al mondo in una “famiglia sociale” in cui ciascuno è padre e madre, fratello e sorella nella vita quotidiana. Una vita concreta che è condivisione di spazi fisici, relazioni, affetti, amicizia, pensieri, progetti e interessi. La cura è un’esigenza della condivisione della vita e la condivisione della vita nasce dalla cura che di essa abbiamo.

Senza cura della vita nostra e degli altri resta solo l’estraneità: la misera condizione di essere reciprocamente “stranieri”.

Nascere e morire come “stranieri della vita” è ciò che di più triste l’uomo possa sperimentare sulla terra.

Il primo diritto di cittadinanza è quello alla “cittadinanza umana”, a partecipare alla comunità degli uomini e delle donne che si riconoscono l’un l’altro la vita come un bene per sé e per tutti da custodire, promuovere e tutelare.

E un bene riconosciuto e condiviso è sempre un diritto inalienabile.

La morte è parte della vita terrena e porta della vita eterna. Se ci accomuna la vita nel tempo, non ci è estranea quella nell’eternità. Prenderci cura dell’ultimo tratto di strada sulla terra, quello che ci avvicina all’ingresso nell’altra vita, è un dovere verso di noi e verso gli altri. Un dovere comune che nasce dal primo tra i beni comuni che è la vita. Recentemente, Papa Francesco ha ricordato che «la vita è un diritto, non la morte, la quale va accolta, ma non somministrata. E questo principio etico riguarda tutti non solo i cristiani o i credenti» (Udienza generale, 9 febbraio 2022). Non si tratta di rivendicare nella società e tra gli ordinamenti giuridici lo spazio di una norma morale che ha il suo fondamento nella Parola di Dio ed è stata incessantemente affermata nella storia della Chiesa, ma di riconoscere un’evidenza etica accessibile alla ragione pratica, che percepisce il bene della vita della persona come un bene comune, sempre.

La “carta della cittadinanza umana” – incisa nella coscienza civile di tutti, credenti e non credenti – contempla l’accoglienza della morte propria e altrui, ma esclude che essa possa venire, in alcun modo, provocata, accelerata o prolungata”.

“Se la strada delle “cure palliative” – aggiunge la nota – appare essere una soluzione buona e desiderabile per sollevare dal dolore la vita dei malati che non possono essere guariti con gli attuali protocolli terapeutici o di coloro che vedono avvicinarsi il termine della loro vita terrena, occorre sciogliere un equivoco, che rischia di veicolare attraverso l’aiuto a morire serenamente uno scivolamento verso la “somministrazione della morte”.

È ancora il Santo Padre a evidenziare questo pericolo: «Dobbiamo accompagnare alla morte, ma non provocare la morte o aiutare qualsiasi forma di suicidio» (Udienza generale, 9 febbraio 2022)”.

Daniela Catalano

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