Le ombre del regionalismo differenziato
Come andare oltre la semplice questione dell’autonomia
La discussione pubblica di questi giorni intreccia il tema, purtroppo consueto, della corruzione politica e della ricorrente tensione tra pezzi della politica e la magistratura penale con un argomento di rilievo istituzionale che tocca direttamente ciascuno di noi: il cosiddetto regionalismo differenziato, in particolare in materia sanitaria.
Scorgo la tendenza a semplificare eccessivamente i termini della questione, come se si trattasse di dare o meno autonomia alle regioni. Ma il nostro Stato è uno Stato delle autonomie, non è uno Stato accentrato, e le regioni sono enti autonomi dal 1948! Tra esse, alcune, per ragioni prevalentemente storico-linguistiche (Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia) e geografiche (Sicilia, Sardegna), hanno un’autonomia speciale. Dal 2001, la Costituzione permette – art. 116, comma 3 – alle altre regioni, quelle ordinarie, di chiedere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, all’interno delle materie già attribuite e in alcune materie attualmente statali.
Quindi, non genericamente una “maggiore autonomia”, ma specifiche e puntuali assegnazioni di competenza in campo legislativo e amministrativo.
Enfatizzare una parola nobile come autonomia, così strettamente radicata nella riflessione del cattolicesimo democratico e sociale, rischia di nascondere il nocciolo della questione: soprattutto nel campo dei diritti sociali (e in Italia le regioni occupano largamente tale settore) un’autonomia poco meditata può compromettere non tanto l’unità astratta della Repubblica quanto l’eguale concreto godimento di tali diritti da parte dei cittadini, quale che sia la loro residenza, che dell’unità della Repubblica costituisce il presupposto sostanziale.
Ecco allora la necessità di porre in modo non ambiguo la questione delle differenziazioni tra regioni, per rafforzare lo Stato regionale, non per sfarinarlo. Vi sono, all’interno delle attuali competenze regionali, materie nelle quali la sottrazione di questa o quella competenza allo Stato centrale e la sua assegnazione a questa o quella regione non viene a comportare alcun effetto significativo per il sistema complessivo o per le altre regioni. In sanità, invece, non è così.
Il Servizio sanitario nazionale (Ssn), legittimo vanto del nostro Paese, è un sistema nazionale di tutela della salute fondato sull’universalità dei destinatari, la globalità della copertura assistenziale, l’equità di accesso sotto il profilo economico e territoriale, l’appropriatezza delle prestazioni e il finanziamento sulla base della fiscalità generale (progressiva, cioè equa) Esso ha tra le sue finalità primarie quella di promuovere l’avvicinamento tra situazioni regionali diverse, mirando a ridurre le diseguaglianze territoriali e le conseguenze disparità di trattamento personali, non a cristallizzarle. Non v’è dubbio che esistano campi nei quali l’esperienza di una regione va valorizzata (pensiamo alla farmacovigilanza o all’accesso alle scuole di specializzazione). Fa invece problema l’intreccio tra le richieste di autonomia totale in tema di compartecipazione alla spesa e quelle concernenti i cosiddetti fondi sanitari integrativi.
Stante il prevedibile carattere largamente sostitutivo e non meramente integrativo delle prestazioni coperte da tali fondi, si generebbero duplicazioni e si aggraverebbero le disparità tra territorio e territorio, tra cittadino e cittadino. Inoltre non sarebbe difficile scorgere nella combinazione di fondi sostitutivi, manovre sui ticket, regole “ammorbidite” quanto all’attività libero-professionale intramuraria e facoltà di assumere medici non in possesso di specializzazione né che abbiano stipulato un contratto di formazione specialistica, la possibile costruzione di un sistema “a doppio pilastro” assai squilibrato, nel quale la qualità dei servizi e delle prestazioni rese dalla componente pubblica sarebbe inevitabilmente recessiva rispetto a quella realizzabile all’interno del settore privato. Sarebbe, questa sì, la vera “secessione dei ricchi”.
Ce n’è a sufficienza, credo, per rimeditare bene tutta la vicenda.
Renato Balduzzi