L’epistolario tra Cesare Angelini e Paolo De Benedetti
Un’amicizia nel nome del Logos nel volume curato da Nicoletta Leone e Fabio Maggi, uscito per Morcelliana
Agli occhi incantati del giovane Paolo De Benedetti (1927-2016) che sul finire degli anni Quaranta si rivolge al Rettore monsignor Cesare Angelini (1886-1976) per farsi scrivere la prefazione a un volumetto di poesie, il Collegio Borromeo può davvero apparire come un «nobile castello», ma più lieto di quello che nella Divina Commedia ospita i grandi sapienti del Limbo. La metafora non vale solo per la meravigliosa architettura manieristica dell’edificio disegnato dal Pellegrini, con il contorno di alberi e giardini che si affacciano sull’azzurro del fiume Ticino. A renderlo tanto nobile è infatti innanzi tutto la figura del Rettore, la cui humanitas non si limita al culto delle belle lettere (da qui i “Saggi di umanismo cristiano”, dei quali lo stesso De Benedetti diventa collaboratore insieme a personaggi come Gianfranco Contini, Pietro Prini, Giovanni Getto, Dante Isella e altri begl’intelletti); ma riguarda anche quel forte, cristianissimo sentimento dell’amicizia che fa dire ad Angelini in uno dei brani di questo carteggio: «negli amici… io cerco l’anima, voglio trovare l’anima». Ecco il punto. Se si prescinde da questo umanesimo totale, non solo letterario, si finisce inevitabilmente per fare una caricatura del prete poeta che, per esempio, Montanelli superficialmente paragonava a un abate del Settecento e che molti circoscrivono ancora oggi nel piccolo recinto di arguti vezzi come la lunga candida chioma, l’immancabile sigaretta, il fiero caffè, i gemelli ai polsi della camicia, le formidabili battute (a partire dal «cattolico ma acuto» con cui si autodefiniva giocando sui giudizi che il don Ferrante manzoniano dava di Botero e Machiavelli).
È invece soprattutto la pienezza della persona Angelini e, insieme, del suo umanesimo ad avvincere Paolo De Benedetti, per il quale infatti quando l’amico lascerà il Collegio per traslocare in un «alto solaio visitato dai gufi e dai colombi», così commenterà: «La casa è dove c’è il suo abitatore, e mi pare che l’intero Borromeo prenderà dimora in via Luigi Porta». Un’iperbole, certo, ma significativa di un sentimento.
È pur vero che questa amicizia nasce – come detto – nel nome della poesia. Così come è vero che di questo carteggio, durato dal 1949 al 1975, il leitmotiv è costituito dagli scritti via via pubblicati dai due amici, dai loro libri e da tutto ciò che li riguarda. Persino le contingenze più private sembrano essere colte attraverso un filtro letterario o artistico. Ed è anche vero che di tanti fatti e nomi decisivi di tutti questi anni – dalla guerra fredda al Sessantotto, da De Gasperi e Togliatti a Stalin o addirittura a Kennedy – non risulta nulla in queste lettere. C’è l’eccezione “romantica” della rivolta ungherese del ’56, che tanto scandalizza Angelini per il mancato intervento dell’Occidente in aiuto di quel popolo oppresso; e c’è ovviamente – ne parleremo dopo – il capitolo particolare delle guerre arabo-israeliane. Ma nel complesso, lo ripeto, poco o nulla. Così come non c’è nulla dei poderosi fremiti sociopolitici ed economici di quell’Italia che, da don Camillo e Peppone, si avviava al Boom e poi al Sessantotto. A un certo punto lo stesso Paolo, tutto preso dal lavoro editoriale presso Bompiani nella troppo agitata Milano, si lascia andare a una confidenza come questa: «Io non saprei trovare nel mondo un solo angolo in cui si possa vivere coi poeti, salvo il Borromeo».Vivere coi poeti, lo stesso titolo di un fortunato volume angeliniano… Come a celebrare un’idea appartata e un po’ crepuscolare delle lettere, quasi rifugio dai guasti della vita.
È una contraddizione rispetto a quanto ho detto prima? In realtà, nella missiva sopra citata, De Benedetti si abbandona anche a una considerazione profonda e tutt’altro che crepuscolare come questa: «Mi son deciso a non studiare più nulla se non il Talmud, e a non leggere più nulla se non i pochi libri già letti. Perché mi son convinto che la cultura e la saggezza han vie diverse, e questa passa per pochi libri e molto silenzio».
La “letteratura” insomma non basta, come spiegherà lo stesso De Benedetti in una commemorazione dell’amico pubblicata – con altri scritti per così dire reciproci dei due corrispondenti – in calce al volume. Scrive dunque, con riferimento al noto stemma borromaico: «E io mi sono sempre domandato se a chi ha una corona si raccomanda l’humilitas, o se a chi ha l’humilitas viene voglia di mettersi una corona. E direi che le due cose in Angelini si intrecciavano, cioè la sua humilitas di uomo religioso e di amico attento e premuroso, portava consapevolmente la corona di chi maneggia le parole (e Angelini, maneggiando le parole, sapeva che esse appartengono alla stessa famiglia della Parola, del Logos). Questo dobbiamo conservare, perché Angelini non sta solamente nei libri».
Non si può dire meglio. Le parole come manifestazione minore ma della stessa sostanza del Logos: a pieno titolo parte della vita e del progetto divino di Redenzione del mondo. Per questo vanno rispettate, e maneggiate con cura.
È quasi un piccolo mondo antico quello rappresentato in questo carteggio. C’è la provincia con i suoi ritmi lenti e riposati, nella Pavia di Angelini e nella Asti di De Benedetti. Altre patrie all’altezza di queste due sono soltanto Assisi e la Terrasanta, più volte evocate. Milano, come detto, non è luogo adatto alla poesia; e così pure la Torino dove i due si ritrovano qualche volta per far visita a L., la giovane donna dal nome celato che è tritagonista del carteggio, con il suo temperamento – artistico e umano – che interagisce in modo interessante e creativo con i due principali corrispondenti. Commuove vedere il Rettore del Borromeo andare a Torino in taxi, passando da Milano a prelevare l’amico, per poi trascorrere insieme una fertile giornata primaverile con L. (sempre in taxi, Angelini si spingeva sino ad Assisi, con una prodigalità strettamente collegata alla sua povertà di contadino che non annette al denaro più importanza di quanta ne abbia).
Così come commuove l’abitudine di «spezzare il pane» che i due amici con una discreta regolarità condividono alla mensa del Borromeo. Sono i ritmi di un’amicizia vera e senza fretta.
Ma infine, o magari in principio, questa è anche la storia di un abbraccio tra cristianesimo ed ebraismo. De Benedetti è figlio di un ebreo agnostico, che concede volentieri alla moglie di educare il figlio cattolicamente, a patto però che sia lei a farlo di persona. Lui cresce così con un’educazione cattolica persino rigorosa, trovando in Angelini una porta spalancata verso la religione dei padri. Angelini non era un pasticcione capace di facili irenismi o sincretismi approssimativi, e neppure di cedimenti rispetto ai fondamenti della Chiesa. Il suo è sempre stato un ecumenismo inclusivo, che incorpora il meglio dell’interlocutore. Lo si veda in questa lettera che gli scrive De Benedetti nel 1968 (l’anno prima Gerusalemme era passata a Israele) in risposta a un magnifico articolo di Angelini, che aveva colto il cuore religioso dell’evento, spoliticizzandolo e anche citando l’amico: «Lei ha voluto farmi onore e darmi il merito di sentimenti che io invece ho imparato da lei: e ora devo alla sua amicizia di figurare pubblicamente tra quelli che in ebraico si chiamavano chovevé Zión, amanti di Sion. Perché Gerusalemme ha una sua santità futura, che nasce proprio dal fatto che in Terrasanta si incontrano coloro che aspettano ancora il Messia. Anche noi lo aspettiamo, che ritorni; e quel ritorno sarà la venuta per chi non lo aveva ancora visto». Subito dopo, ecco in altro messaggio il vero suggello di questa amicizia: «Mai il Muro Occidentale ha avuto un “amante” così, fuori di Israele. Quando il Messia suonerà il grande sciofàr per adunare i dispersi, dirà: “Dov’è Angelini? Lo voglio qui insieme a Naaman Siro, alla Regina di Saba e a tutti i giusti delle nazioni”. Vedrà che bella festa».
A leggere queste lettere viene addirittura il sospetto che sia stata proprio l’amicizia di Angelini a stimolare attivamente la passione di De Benedetti verso l’ebraismo (di cui diventerà docente all’Università Cattolica). Di certo la passione verso la religione ebraica è stata cementata nei due corrispondenti dal comune interesse per il Cantico dei Cantici, tradotto da entrambi – e in particolare da Angelini – lasciando «i teologi fuori dalla porta (benché vicini, in caso di allarme)» e «i filologi in piedi… come i servitori di una volta». Così come è stata cementata dall’interesse per i Salmi, ancora in un forte senso ecumenico perché, dice ancora Angelini, «è intorno a queste antiche poesie che si mantiene e si conferma la più vasta unità religiosa possibile… non solo i salmi uniscono nella preghiera le varie Chiese cristiane, divise altrimenti anche sui testi biblici, ma uniscono pure cristiani ed ebrei».
In questo ecumenismo così arioso e pervaso di grazia c’è posto anche per gli animali, gatti lucertole pipistrelli…, senza i quali per De Benedetti non ci può essere un vero paradiso.
Anche in quelle presenze, pur minime, si esprime la grandezza del creato e l’impronta del Creatore. L’interlocutore non risponde su questo ma c’è da scommettere che, da francescano naturaliter, condivida.
Insomma, una letizia vera attraversa si può dire ogni pagina di questo magnifico carteggio, curato da Nicoletta Leone e da Fabio Maggi, il benemerito pronipote che tiene viva la memoria di Angelini curando egregiamente il sito web www.cesareangelini.it. È così che si amministra un’eredità!
Cesare Angelini, Paolo De Benedetti, “Quasi evangelista, quasi talmudista. Lettere (1949-1975)”, a cura di Nicoletta Leone e Fabio Maggi, Morcelliana, Brescia 2020, pp. 336, Euro 21ù
Si ringrazia la Biblioteca Bonetta di Pavia, che ha concesso la pubblicazione di questa recensione
Gianni Mussini