Mahmood: la politica non c’entra

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Ha vinto un pezzo innovativo, ritmicamente diverso e ben cantato

SANREMO – Musica, spettacolo, pettegolezzi e polemiche.

L’edizione 2019 del Festival di Sanremo sarà ricordata per tanti strascichi che rivelano la vera natura sia del Festival sia della degli italiani, sempre pronti a dividersi dove non si dovrebbe.

I commenti alla classifica finale lasciano intendere di una gara musicale vissuta come se si fosse allo stadio e trascurando del tutto la differenza tra l’arte, o meglio, l’intrattenimento, e lo sport: ovvero la possibilità di esprimersi liberamente, senza un avversario che può contrastare il successo di qualcuno.

Se una canzone vince la gara musicale, nulla vieta che il pubblico possa amarla insieme ad altre centomila: da qui è inspiegabile come si continui ad arrovellarsi sulla vittoria di Mahmood, con tutte le implicazioni politiche, sociologiche, dietrologiche e assai poco musicali che la notizia ha scatenato. E invece il segno musicale che lascia il brano vincitore è notevole: ha vinto un pezzo innovativo, ritmicamente diversissimo, prodotto in modo fantastico e ben cantato.

Certo, può piacere o no e qualcuno è liberissimo di preferirne altri. Tuttavia c’era un regolamento, sottoscritto prima dello svolgimento della gara, in cui si ripartiva il voto in quel modo, tra televoto, giuria popolare e di esperti.

In sintesi sono due i fronti di discussione: uno riguarda i sospetti che le giurie abbiano favorito un “nuovo italiano” di padre egiziano solo per ragioni politiche radical chic; il secondo riguarda il fatto che grazie alle giurie non abbia vinto colui che aveva conseguito più consensi al televoto popolare, cioè il cantautore Ultimo, andando così nel solco della dicotomia surreale che oppone popolo a presunte élite.

Peccato però che il regolamento invece fosse lo stesso con cui Ultimo lo scorso anno vinse senza alcuna polemica tra le Nuove Proposte. E peccato che giusto un anno prima il Festival fu vinto da un cantautore albanese che, rispetto a Mahmood, non era nemmeno nato in Italia. E vogliamo ricordare le origini albanesi della vincitrice di 30 anni fa, Anna Oxa, che all’anagrafe fa Ana Hoxha? O che Richard Cocciante, vincitore nel 1991, sia di passaporto francese e nato a Saigon? Le giurie di esperti servono pur sempre quando si deve premiare al primo ascolto, come peculiarità unica del Festival di Sanremo: orecchie allenate sanno riconoscere il buono al primo colpo, fungendo da segnalazione per il pubblico, che tuttavia può sempre riservarsi di scegliere se seguire questi consigli o premiare nel tempo altre musiche e altri nomi. È libertà di espressione anche questa.

Resta il fatto che il Festival quest’anno ha davvero svecchiato generi e stili, proponendo tutte canzoni di livello accettabile se non buono e risparmiandoci certe noiosità che dopo la settimana di Sanremo scomparivano.

Un grande livello di selezione delle proposte e una classifica che ha tenuto conto di differenze di gusti e stili: vince un brano rap/reggaeton/arab, al secondo posto un pezzo che si definirebbe oggi indie, terzo un brano melodico lirico, quarto un brano rock, quinto un cantautorale classico, sesto un cantautorale rap, settima una sorta di gospel, ottavo un brano electro pop, nona una trasgressione rock’n’roll, decimo un sussurrato melodico, undicesimo un reggae, dodicesimo un pezzo soul, tredicesimo un soft rock inglese e via scalando, fino al pop adolescenziale, al moderno napoletano, al rock d’impegno, al country rock all’americana, al powerpop, per una fotografia reale della canzone italiana del 2019, senza i pezzi tipicamente sanremesi, fatti cioè per restare in vita solo nella settimana della kermesse. Ora si deve continuare così per altri 70 anni. Perché nessuna altra manifestazione musicale al mondo premia dei brani, tutti inediti, prima che diventino successi. E nessun evento coinvolge un Paese intero in questo modo.

Stefano Brocchetti

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