Mascherine e maschere

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di Vittorio Viola

Qualcosa di buono questo virus lo ha fatto. Lo dico sottovoce, nel rispetto del dolore che ha portato dentro la vita di tutti noi e di alcuni in particolare: un mare di dolore, agitato dalle onde delle nostre paure, del sentirci indifesi, disarmati, soli, mortali. Nella vita di ogni uomo la sofferenza ha sempre in sé qualcosa di sacro che ci impone rispetto e timore.

Con questi sentimenti nel cuore, penso che qualcosa di buono questo virus lo ha fatto. Non mi riferisco “solo” al bene enorme della commovente dedizione di quanti hanno rischiato e rischiano la loro vita nel dedicarsi gli altri, per tutti noi concreto motivo di speranza.

C’è anche dell’altro.

È quasi paradossale: mettendo sui nostri volti una mascherina ci ha “smascherato”. Intendo dire che l’evidenza della fragilità della nostra vita in tutti i suoi aspetti, ha fatto cadere le nostre innumerevoli maschere dietro alle quali spesso nascondiamo un vuoto abissale.

È il vuoto di una politica che affronta i problemi preoccupata solo del consenso elettorale; di una Europa che si agita solo per difendere lobbistici interessi economici; di uno sport – e il calcio in particolare – diventato una idolatrica religione con i suoi insensibili dèi di plastica; di una privacy che per tutelare le persone è disposta anche a farle morire da sole. E molto altro.

Ancor più pauroso è, poi, il vuoto del quale tutto questo è espressione: quello che abbiamo dentro di noi, quello della nostra immaturità umana, della nostra coscienza deformata, della nostra incapacità di affrontare la vita, delle nostre ideologie, anche religiose, della nostra ricerca di un benessere temporaneo che non si preoccupa di quello eterno, vale a dire della salvezza.

Nel salone delle feste del transatlantico più possente di sempre, nessuno si poneva la domanda su quale fosse il vero motivo per far festa. Bastò, ahimè, un iceberg nella nebbia per dire che la festa era finita e per far colare a picco quel senso di forza, di presunta “titanica” invincibilità.

Mi torna alla mente una poesia di David Maria Turoldo (O sensi miei… Poesie 1948-1988, pag. 263): «Paura che altri ci veda dentro / la refurtiva, / forse il delitto pensato, / la fedeltà mai esistita. / Paura di quanto può succedere / da un momento all’altro, / attraversando la strada. / Paura del giorno e della notte: / che l’involucro si rompa / come giocattolo e la maschera / ti cada per via…».

È così: il giocattolo di una vita che anestetizza le domande con il possesso delle cose e del denaro si è rotto e nel mezzo della strada ci siamo ritrovati nudi, senza maschera. La nostra vita è stata passata al setaccio del virus che ha vagliato in un istante ciò che conta e ciò che non conta, il vero e il falso. Perché tutto questo è buono? Perché ci costringe a farci domande e a cercare risposte credibili, ovvero capaci di stare di fronte alla drammatica bellezza della vita.

Abbiamo bisogno di Dio, del suo amore che salva, della Pasqua del Figlio suo che ci libera da ogni schiavitù, anche quella della morte. Solo nell’incontro con Cristo tutto l’umano viene redento: così la nostra politica diventa forma alta della carità; l’Europa diventa la casa comune nella quale o tutti crescono – soprattutto i deboli – o non cresce nessuno; lo sport diventa modo gioioso di condividere valori veri e ogni legge è pensata per difendere l’uomo e il suo bisogno di comunità. Con il Santo Padre – la grandezza della sua preghiera dell’altra sera davanti all’inferno, ancora ci impressiona – chiediamo a Dio che questo flagello passi. Ma chiediamo anche che ci faccia crescere, tutti.

(da “Il Popolo” di giovedì 2 aprile 2020)

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