MASSIMILIANO GATTI: «L’Aleph racchiude tutti i luoghi della Terra»
Il fotografo (e farmacista) di Bressana Bottarone ci racconta la sua arte: una continua attenzione verso il mondo
Si intitola “Aleph” l’ultima mostra personale di Massimiliano Gatti, fotografo (e farmacista) di Bressana Bottarone, conosciuto oltre i confini nazionali per la sua arte e da anni impegnato tra l’Italia e il Medio Oriente al seguito di importanti missioni archeologiche.
L’esposizione, attualmente aperta presso la galleria veronese “Studio la Città”, è curata da Maud Greppi e vede esposte alcune serie fotografiche che Gatti ha realizzato negli ultimi anni come In superficie (2014), Aleppo è una foglia d’alloro (2018), Le nuvole (2019) e La collezione (2020) presentata per la prima volta.
Quale professione senti più tua: il farmacista o il fotografo?
«La mia è una formazione scientifica: mi sono laureato in Farmacia, poi ho condotto ricerche di Biochimica in Spagna, all’università di Granada. In qualche modo, il mio modo di fare fotografia è influenzato anche dalla mia forma mentis che è scientifica».
Quindi i due aspetti sono legati…
«La fotografia è, se vogliamo, la più scientifica delle arti. Per natura è un po’ anche Chimica. Riesco a distinguere i due ambiti professionali: la mia è una ricerca fotografica libera. Faccio solo quello che mi interessa e che mi piace approfondire, senza una necessità pragmatica. Quello del farmacista è un lavoro ripetitivo; invece il fotografo, come lo intendo io, è un mestiere fatto esclusivamente di studio. Una continua attenzione verso il mondo».
Nella tua carriera ti sei specializzato come fotografo in archeologia approfondendo un lato interessante della disciplina. Pensi ci sia una forma d’arte anche in questo tipo di fotografia?
«Bisogna fare un distinguo. La fotografia archeologica è molto tecnica: è funzionale a una pubblicazione scientifica. Lì c’è mestiere, ma non c’è arte. Alcuni fotografi utilizzano questo stilema con finalità artistiche, ma sono pochi. Quello che faccio io è prettamente tecnico-scientifico. Poi, trovandomi in quelle situazioni, e avendo sottomano quei materiali e quei luoghi, lavoro utilizzando una mia tecnica, una mia poetica: e allora mi dedico anche a un altro tipo di ricerca, che però è una ricerca personale».
C’è qualche modello a cui ti ispiri?
«Ho studiato fotografia con Roberta Valtorta, una storica e critica della fotografia che ha vissuto il periodo del “Paesaggio italiano”, con fotografi come Ghirri, Castella, Basilico. Avendo studiato con lei, negli occhi ho quel tipo di impostazione che, se vogliamo, ha anch’essa carattere scientifico-documentaristico».
Le tue fotografie custodiscono una chiarezza doppia: chiara la luce, con le immagini ad altissima luminosità, e chiari i dettagli, talmente chiari che identificano l’intero contesto. Un marchio di fabbrica.
«Mi sono diplomato nel 2008 alla Scuola Bauer di Milano e sono immediatamente partito per la Siria. Ho iniziato subito a scattare in un luogo dove, soprattutto d’estate, c’è un sole fortissimo. E questa particolare luce del deserto, che si vede nei lavori che ho fatto sulla città di Palmira, rimbalza sulla sabbia, sulle nuvole… tutto appare completamente bianco. In qualche modo quella luce mi è entrata negli occhi. È un aspetto che mi piace cercare anche altrove. Può dare una sorta di decontestualizzazione».
Veniamo all’attualità: parlaci della mostra che hai inaugurato di recente a Verona.
«È una mostra che raccoglie alcuni dei miei ultimi lavori, sempre legati agli ambienti mediorientali, quelli più simbolici, più metaforici. La chiave interpretativa di questa particolare mostra è la simbologia dell’Aleph, la prima lettera dell’alfabeto fenicio, che ha un forte valore: il significato di origine, di sorgente».
E dà il titolo a un celebre racconto – e a una raccolta – di Jorge Luis Borges.
«Esattamente: infatti c’è anche questo riferimento a Borges quando lo scrittore afferma che “l’Aleph è il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della Terra”. È come se fosse il racconto di un Medioriente come sorgente, come origine di tutte le nostre culture. Una sorta di fonte originaria: tutte le grandi religioni monoteistiche sono nate lì. Abramo stesso ricorre in tutte le principali religioni e viene da Ur. Non è un caso».
Pier Luigi Feltri
Aleppo è una foglia di alloro
Aleppo è il teatro di una lotta che la consuma da anni.
Aleppo si sgretola.
Il mio sapone, ricetta antica di alloro e olio d’oliva, è il simbolo di una ritualità costruita sull’attesa.
È una forma solida, monolitica, che si rompe, fragile, in frammenti; è il mio ricordo di qualcosa che non esiste più.
Ma il tempo ricuce la pelle ferita.
Le città cadono in rovina e le rovine tornano a essere città.
La duplicità del verso di lettura del progetto è una duplicità di senso.
Come nella storia, il tutto e il nulla si confondono in un confine invisibile, per toccarsi in un punto.
E come per il sapone, il ciclo della vita finalmente ricomincerà.
m.g.