Non ci sono tragedie di serie B. E l’esempio viene da Arena Po

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Quando in un incidente o per colpa di una calamità naturale muoiono persone che non consideriamo dei nostri, sembra che la morte ci riguardi un po’ di meno. Dai, non fate quella faccia. So che anche tra di voi c’è chi ha commentato: “Sono indiani quelli che hanno perso la vita? Non sono italiani?” e poi, senza dirlo, ha pensato che allora, dopotutto, la tragedia è stata meno tragica. Eh sì: sono proprio indiani i quattro poveretti morti la settimana scorsa nell’allevamento di bovini ad Arena Po, indiani di origine sikh, con la barba lunga, uno di loro portava il turbante, parlavano bene l’italiano ma si sentiva che, insomma, venivano da fuori. Extracomunitari, immigrati, migranti: c’è chi ha fin troppo le idee confuse. Invece no: quei quattro uomini coraggiosi, annegati nella vasca dei liquami nel disperato tentativo di salvarsi a vicenda, erano più “comunitari” che mai. Vivevano qui, lavoravano qui, facevano girare la nostra economia, erano integrati. E nonostante il clima di caccia allo straniero che si respira in giro, in un borgo dell’improbabile Padania tutti stanno piangendo la scomparsa di quattro compaesani. Una bella lezione quella che viene da Arena. Un esempio di “ordinaria” e profonda civiltà. A partire dagli allevatori amici che subito, per non fare morire il bestiame, sono accorsi a mungere le vacche che stavano già male, portando aiuto e solidarietà e braccia da lavoro a un’azienda che, sempre in questo clima, sarebbe stata da considerare rivale, nemica. In una brutta e triste storia la mobilitazione della gente dice che siamo ancora capaci di grandi gesti, che non è soltanto debolezza e menefreghismo ciò che ci circonda. “Le morti come quelle di Pavia non vanno chiamate morti bianche. Lì di bianco c’è solo il lenzuolo che copre i corpi. Sono morti che non devono più esserci. Non si può morire di lavoro”: la ministra Teresa Bellanova ha parlato così dell’incidente. E quel lenzuolo è stato teso e pietosamente adagiato sui corpi privi di vita da centinaia di mani, una grande famiglia, un pezzo di umanità che, prima di elaborare il lutto, vive il momento del coraggio e già da sé si riscatta.

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