Non sono solo parolacce
di Maria Pia e Gianni Mussini
Gianni e Maria Pia non amano le parolacce. Mica per bacchettoneria, ma per una questione di stile, misura, persino carità verso quella Parola da cui – Vangelo alla mano – è partito tutto e della cui sostanza sono fatte perciò anche le parole con la minuscola.
Certo, come dicono a Roma, quanno ce vo’ ce vo’. E non mancano esempi illustri di linguaggio “forte”, a partire da padre Dante. Addirittura, il formalista russo Bachtin lo lega al rovesciamento parodico della realtà connesso al carnevale, con la sua dimensione conoscitiva che svela le verità nascoste.
Del resto non ne era immune lo stesso san Francesco che, stando ai Fioretti, così si rivolse al demonio tentatore: «Apri la bocca, mo’ vi ti caco». E addirittura in uno dei primi documenti in volgare italiano (rappresentato in una sorta di “fumetto” su una parete della basilica di san Clemente a Roma), un certo personaggio invita degli operai a trascinare una pesante colonna con parole che non c’è bisogno di decodificare: «Fili de le pute, traite».
Non è però il caso di insistere troppo sugli aspetti “necessari” e liberanti del turpiloquio.
Infatti, eccettuati i casi “artistici” o comunque motivati da un’esigenza profonda, esso è quasi sempre contrassegno di volgarità intellettuale e di povertà spirituale. In troppi film e spettacoli comici, o presunti tali, si assiste all’inutile ostentazione di una volgarità fine a se stessa, in cui per far ridere sembra necessario il ricorso alla parolaccia quando non a grevi doppi sensi e all’ostentazione della fisiologia umana. Così, un pubblico sempre più infantile è trattato sempre più infantilmente.
Una decina di anni fa il filologo Cesare Segre, già docente universitario di Gianni e Maria Pia, dalle idee molto progressiste, lamentava questa tendenza ormai straripante, in particolare deprecando l’invalsa abitudine di punteggiare qualunque discorso con invocazioni al fallo maschile, naturalmente nel registro più basso. Tanto che, aggiungeva, «un marziano giunto tra noi penserebbe che il fallo sia la nostra divinità, tanto ripetutamente viene nominato dai parlanti».
Ma è un’abitudine che porta a un grave impoverimento di una bella lingua come la nostra e che andrebbe combattuta non solo sul piano etico ma anche su quello estetico: se il linguaggio si impoverisce, ne è ferito gravemente anche lo spirito perché la forma non è mai neutra e noi diventiamo quello che diciamo.
Una posizione passatista quella di Gianni e Maria Pia? Sentite il più rivoluzionario dei rivoluzionari sovietici, Lev Trotsky: «La trivialità del linguaggio è un’eredità dello schiavismo, dell’umiliazione, del disprezzo per la dignità umana, quella degli altri e la propria»; e addirittura essa «è per lo spirito ciò che per il corpo sono i pidocchi: un veicolo d’infezione».
Altro che semplici parolacce!
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