“Padrenostro” che hanno ucciso
Dentro un tunnel, una scena chiave ambientata nel cuore di una galleria buia, gente che non riesce a respirare. Inizia così “Padrenostro”, primo film italiano presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2020. Un’opera in cui si avverte per tutto il tempo una forte e pressante esigenza personale. La pellicola, infatti, rielabora una fondamentale vicenda autobiografica vissuta in prima persona dall’autore quando suo padre, il vicequestore Alfonso Noce, fu coinvolto in un attentato. Era l’Italia della Lazio di Giorgio Chinaglia, di Tex che invadeva le edicole e soprattutto l’Italia degli anni di piombo. Quella del terrore costante, segnato da autobombe, mitra e passamontagna. La sceneggiatura si lega per tutto il tempo allo sguardo angelico di Valerio, un bambino di dieci anni con un amico immaginario, una grande passione per il calcio e una famiglia agiata che lo protegge a oltranza, anche quando suo padre viene ucciso sotto casa.
Valerio assiste alla scena, e la sua vita viene segnata per sempre. Ecco che “Padrenostro” scende ad altezza di bambino per guardare il mondo con quegli occhi bisognosi di conferme, affetto e soprattutto risposte. Perché il cuore pulsante del film è nascosto nel rapporto irrisolto tra Valerio e suo padre. Una prova notevole e difficile da parte di Pierfrancesco Favino: l’attore romano qui fa vivere una figura genitoriale davvero ambi-
gua, appare e scompare, è astratto e poi di colpo troppo presente. Per quanto “Padrenostro” riesca a recuperare il candore di uno sguardo fanciullesco, va anche detto che No-ce si complica la vita inserendo nel film altri elementi e altri temi non ben amalgamati, che alla fine risultano distrazioni che allontanano lo spettatore dal perno della storia.
Meno convincente è l’interpretazione dei due ragazzini, Mattia Garaci e Francesco Gheghi nei panni rispettivamente di Valerio e Christian, che appaiono a disagio soprattutto nel momento in cui sono come sospesi e proiettati in un altro mondo.