Padre Michele da Carbonara

Quando la “veneranda canizie” di Padre Michele difese la storicità di San Marziano

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Le appassionate pagine di un grande tortonese

Padre Michele da Carbonara propose una lettura “moderna” dei documenti che parlano di San Marziano, con alcune intuizioni che di fatto anticiparono di un secolo le conclusioni del prof. Paolo Tomea, di cui si è diffusamente parlato sul nostro giornale. La sua profonda cultura letteraria e il suo spirito libero gli seppero evitare le insidie ideologiche dello storicismo, imperante all’epoca

Il 9 febbraio 1902 veniva pubblicato un agile libretto che esponeva la tradizione tortonese sulla predicazione e sul martirio di San Marziano, primo vescovo di Tortona, con forti tratti apologetici uniti a uno stile scorrevole e piacevole alla lettura. Delle diverse opere di carattere storico che hanno studiato l’argomento, soprattutto a cavallo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, quella non era certo né la più poderosa, né la più articolata, giacché usciva non dalla penna di uno storico o di un ricercatore, quanto invece dall’affetto di un anziano tortonese, sia pur dotato di profonda erudizione. Tuttavia essa resta la più cara e appassionata esposizione di quella secolare tradizione, non certo priva di storicità, che ha legato la vicenda cristiana di Tortona al nome di Marziano.

L’autore fu Padre Michele da Carbonara, figura esimia che celebra la ricchezza di spirito del clero tortonese, fecondo di santità in ogni secolo. Nel chiuso del convento cappuccino, che dal colle Ronchetto stende la sua rassicurante ombra sulla città, l’anziano frate offrì, come egli stesso dice, all’Arcidiacono della Cattedrale, don Carlo Gastaldi: “poche righe intorno al nostro San Marziano, scritte in momenti di ozio (…) per il Reverendissimo Capitolo Tortonese, del quale un dì ho fatto parte anch’io1. Infatti il Padre Michele, al secolo Giuseppe Carbone (1836-1910) nato nella vicina Carbonara Scrivia, fu sacerdote diocesano, canonico della Cattedrale, docente di diritto canonico in seminario, vicario generale della Diocesi, finché cinquantenne divenne religioso tra i Frati Minori Cappuccini, missionario in Africa e Prefetto Apostolico dell’Eritrea, da poco annessa ai domini coloniali italiani.

Ormai anziano e ritiratosi nel convento di Tortona, non seppe però resistere all’attacco che il gesuita padre Fedele Savio mosse tra il 1896 e il 1899 alla tradizione tortonese su San Marziano, pretendendo di destituirla di fondamento storico. Il Savio infatti, da buon discepolo dello storicismo razionalistico d’oltralpe, afferma, in base al criterio della critica documentaria, che il cristianesimo nel nord Italia si diffuse solo a partire dal secolo IV, in cui appaiono i primi documenti2. San Marziano altri non sarebbe che un omonimo vescovo di Ravenna, le cui spoglie depredate dal re longobardo Astolfo nel 749 vennero da questi portate a Tortona. Di qui nacque poi quella che il Savio chiama “leggenda” sul primo vescovo della città, redatta in quell’abbazia benedettina di San Marziano, potente nell’alto medioevo, costruita sulla presunta tomba del santo dal vescovo Giseprando a partire dal 943. Di fronte a queste congetture il primo a reagire con uno scritto documentato e appassionato fu proprio Padre Michele, “indottovi dall’amore del loco natio e dall’avere un dì fatto parte del Capitolo della Cattedrale, dove si custodiscono le sacre reliquie di San Marziano3, come ricorderà vent’anni dopo un altro illustre storico della diocesi, il canonico Legè. Il libro ebbe ampio consenso, soprattutto per la figura dell’autore, stimato dentro e fuori Italia, cosicché la critica dura e piccata che padre Fedele Savio rivolse al suo antagonista suscitò un’ondata di sdegno, perché vi si lesse da parte di molti quasi una mancanza di rispetto alla “veneranda canizie” di quel sant’uomo di Padre Michele.

Nel suo scritto il nostro Cappuccino dimostra una sottile arguzia e una fine capacità di ricerca archivistica, che sa poi esporre in un discorso fluido e piacevole da leggersi. Egli inizia coll’esporre una serie di dati, dai quali emerge come già nel primo millennio il culto radicato di San Marziano era considerato antichissimo, mentre si permette di far notare una regola, da tenersi come aurea anche dagli storici, cioè che “i nostri buoni vecchi, perché buoni, (non è che) fossero anche goccioloni, e presti a credere qualsiasi cosa venisse loro narrata4.

Neppure si deve pensare che i Tortonesi nei secoli precedenti abbiano mancato di spirito critico, come attesta l’opera del Venerabile Cosmo Dossena, vescovo tra il 1612 e il 1628, che “Sanctorum Vitalis et Agricolae cultum temperavit (moderò il culto dei Santi Vitale e Agricola)” a motivo dei pochi argomenti di fondatezza.

Quanto poi a Giseprando, Padre Michele riporta il testo di un antico documento dell’archivio capitolare di Asti, datato 945, dove lo stesso Giseprando ricorda come, prima della sua nomina a vescovo della città, re Ugo avesse donato alla Chiesa tortonese l’abbazia di San Pietro in Vendersi proprio nel nome di Marziano: “…abaciam de Vendersi (…) quam Hugo serenissimus rex Sancto Marciano sanctoque Innocentio atque Laurentio sanctae dertonensis ecclesiae auctoribus tradiderat (l’abbazia di Vendersi, che il serenissimo re Ugo aveva consegnato a San Marziano, a Sant’Innocenzo e a Lorenzo, fondatori della Chiesa tortonese)”5. Quindi già prima di questo vescovo, sospettato dal Savio di essere all’origine della “leggenda” di San Marziano, la Chiesa di Tortona riconosceva il nostro Santo tra i suoi fondatori, il primo in ordine cronologico, a cui l’autorità regia chinava il capo. L’anziano Frate arriva così a formulare un secondo arguto principio: “colla noncuranza della tradizione, sia pur leggendaria, non si progredisce, si indietreggia e in luogo dell’autorità degli antichi si avrà l’arbitrio fanciullesco dei moderni6.

Uno degli argomenti forti del Savio contro la storicità di San Marziano era poi la tarda composizione di quel primo scritto che parla del santo Vescovo, cioè gli Atti dei Santi Faustino e Giovita, che egli fissa tra il 759 e l’820, attribuendoli a un ignoto autore di area longobarda. Padre Michele demolisce queste congetture chiedendosi come si fosse potuto perdere il ricordo del presunto gesto del re longobardo Astolfo di donare a Tortona il corpo di un Santo, proveniente addirittura da Ravenna, la capitale del potere bizantino in Italia; contemporaneamente in barba a tutti – secondo Savio – veniva manipolata la storia e creata, negli oscuri meandri di un anonimo convento, la leggenda, la quale poi si diffondeva senza alcuna obiezione nel giro di pochissimi anni, dal momento che nel 842 Valafrido Strabone nel suo carme su San Marziano poeticamente canta: “Martianus praesul Terdona primus in urbe (…) qui Sapricius massis ferris praecordia sancta perurens corporis e solio fecit abire animam (Marziano, primo vescovo nella città di Tortona, (…) a cui Saprizio, straziando le sante membra con ferri infuocati, fece uscire l’anima dal corpo)”.

Dopo aver commentato i dati dei documenti, lo storico tortonese tesse una saggia riflessione, che vale la pena di riportare per intero: “La leggenda è sempre l’eco di una tradizione popolare: e la tradizione popolare, massime di qué primi tempi del Cristianesimo, può aver avuto qualche particolare inesatto ed anche inventato, ma avrà sempre veri e autentici i dati essenziali (…). Lo ripeto, è della saggia critica spogliarla delle inverosimiglianze, delle quali l’immaginazione del narratore, o dirò meglio del raccoglitore l’ha circondata. Se tale opera di eliminazione si fa, lasciate in disparte le idee preconcette, la leggenda fatta semplice apparirà in tutta la sua credibilità, e ancora vi resterà tanto che basti a far tranquillo il credente che non ami apparire credulone. (…) il P. Savio mentre fissa l’età della leggenda dei Ss. Faustino e Giovita fra il 759 e l’anno 820, cerca chi ne fu l’autore; io direi piuttosto il compilatore, il raccoglitore. Che la leggenda dei Ss. Faustino e Giovita consti di diversi pezzi scritti in tempi diversi e messi insieme, mi pare che non possa negarsi: solo che si confronti la parte della leggenda che narra di San Marziano (P. IV, 49, 50) con altre parti. La semplicità della narrazione, direi il candore che spira in qué due numeri suddetti, 49 e 50, mi pare che indichino tutt’altro che un lavoro di immaginazione: leggendo mi par di assistere all’interrogatorio che Sapricio fa di Marziano, o di leggere gli appunti di un notaio, che nascosto dietro la turba, si studia di raccogliere le ultime circostanze, le ultime parole della vita di chi egli vede ‘electum ad martyrium’. Nulla di duro ed ingiurioso verso i giudici e gli imperatori, quale fu lo stile ordinario degli atti o passioni medioevali, nessuna di quelle scene con cui i compilatori credevano onorare la memoria del martire. ‘Erat quasi hora prima: sedens Sapricius in templo Iovis iussit adduci Martianum’ (era da poco sorto il sole: Sapricio, mentre sedeva nel tempio di Giove, comandò che gli fosse condotto Marziano). Quanta semplicità e insieme bellezza, appunto perché semplice, in quel: ‘Martianus posuit genua et spiculator amputavit caput eius’ (Marziano si inginocchiò e il carnefice gli tagliò la testa). L’intiera leggenda dei Santi Faustino e Giovita è un centone, composto di atti antichi uniti a memorie tradizionali, le quali memorie tradizionali sono poste in iscritto da chi amò vestirle di reminiscenze poetiche. Ma se vi è parte della leggenda, che non sia opera del compilatore, ma avanzo di atto antico, posto in mezzo e cucito con parti composte, il tratto che riguarda San Marziano è desso: e questo tratto e la tradizione orale della Chiesa Tortonese si confortano a vicenda7.

Il Padre Michele non demorde. Non riesce proprio a digerire che il Savio voglia demolire la più grande gloria della sua patria: l’antichità dell’annuncio cristiano e della Diocesi. Continua quindi a rintuzzare lo storico gesuita punto per punto, giungendo fino al IV secolo ai tempi di Eusebio di Vercelli e di Esuperanzio, il santo vescovo di Tortona suo compagno.

Alla fine conclude con simpatica ironia, lanciando una manzoniana invettiva al suo antagonista: “Lo so ‘povero untorello, non sarai tu che spopoli Milano’ e P. Savio starà colle sue congetture; a me basta aver rinfrancato, e questo oserei sperare, i miei concittadini nella fede in S. Marziano M. e primo vescovo di Tortona fino a prova contraria, la quale prova finora non è stata messa in mezzo8.

don Maurizio Ceriani

Note:

1 P. Michele da Carbonara, San Marziano Martire primo vescovo di Tortona, tradizione tortonese, Tortona 1902, p. 3.

2 Questa tesi, anche se fu poi modificata dal suo autore in seguito alle argomentazioni dell’abate Placido Lugano – altra gloria diocesana – e di Felice Alessio e retrodatata di due secoli, fece scuola e ogni tanto è riproposta.

3 V. Legè, San Marziano Martire primo vescovo di Tortona e i primordi del cristianesimo, Tortona 1922, p. 8.

4 P. Michele da Carbonara, o. c., p. 6.

5 Cfr. F. Gabotto, Le più antiche carte dell’archivio capitolare di Asti, in Biblioteca Società Storica Subalpina, vol. XXVIII, doc. 63.

6 P. Michele da Carbonara, o. c., p. 13.

7 P. Michele da Carbonara, o. c., pp. 15-16.

8 P. Michele da Carbonara, o. c., p. 31.

Padre Michele da Carbonara

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