“Quando vediamo più trincee che strade”
Papa Francesco in Romania dove il cattolicesimo è religione di minoranza
“Chiedo perdono – in nome della Chiesa al Signore e a voi – per quando, nel corso della storia, vi abbiamo discriminato, maltrattato o guardato in maniera sbagliata”.
È lo storico “mea culpa” con cui si è concluso il 30° viaggio internazionale di Papa Francesco, che si è svolto dal 31 maggio al 2 giugno, a 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino e 20 anni dopo la visita di San Giovanni Paolo II in un Paese a maggioranza ortodossa: la Romania, dove vivono 20 milioni di persone, di cui l’80% ortodossi, e il cattolicesimo è religione di minoranza, con il 7% dei fedeli, ma respira a due polmoni, con la Chiesa di rito latino e quella
di rito greco.
Non era mai accaduto prima che un pontefice chiedesse perdono per la comunità rom, incontrata a Blaj durante l’ultima tappa del viaggio: “Non siamo fino in fondo cristiani, e nemmeno umani, se non sappiamo vedere la persona prima delle sue azioni, prima dei nostri giudizi e pregiudizi”.
Lungo la storia, l’umanità si trova sempre di fronte a un bivio: scegliere tra Caino e Abele, tra la “cultura dell’odio e la fraternità, tra l’alzare trincee e il costruire strade”, ha detto Francesco nelle altre tappe del viaggio, che annovera tra le istantanee da conservare il Padre Nostro recitato fianco a fianco al patriarca Daniel – singolarmente ma in una liturgia comune, prima in latino e poi in romeno – e la beatificazione di sette vescovi martiri greco-cattolici vittime del regime comunista. Senza dimenticare la folla di 100 mila persone, in maggioranza di origine ungherese, che ha sfidato il fango e la pioggia pur di assistere alla messa celebrata dal primo Papa a raggiungere la Transilvania, nel santuario mariano di Sumuleu-Ciuc.
Mai più barriere e pregiudizi
“Nella Chiesa di Cristo c’è posto per tutti”. Sono le parole di saluto con cui il Papa si rivolge alla comunità rom di Blaj, circa 60 persone radunate nella nuova chiesa dedicata a Sant’Andrea Apostolo e al Beato Ioan Suciu, nel quartiere Barbu Lăutaru.
Francesco sente su di sé il peso delle discriminazioni, delle segregazioni e dei maltrattamenti subiti da un popolo troppe volte negletto dalla storia, anche dai cattolici.
“È nell’indifferenza che si alimentano pregiudizi e si fomentano rancori”, dice subito dopo il suo “mea culpa”: “Quante volte giudichiamo in modo avventato, con parole che feriscono, con atteggiamenti che seminano odio e creano distanze! Quando qualcuno viene lasciato indietro, la famiglia umana non cammina”. “Non lasciamoci trascinare dai livori che ci covano dentro: niente rancori”, la proposta: “Perché nessun male sistema un altro male, nessuna vendetta soddisfa un’ingiustizia, nessun risentimento fa bene al cuore, nessuna chiusura avvicina”.
Sulla scorta del motto del viaggio, l’invito è “a camminare insieme, nella costruzione di un mondo più umano andando oltre le paure e i sospetti, lasciando cadere le barriere che ci separano dagli altri”.
Continuare a lottare
Poche ore prima, presiedendo la Divina Liturgia nel Campo della Libertà di Blaj, pur senza usare la parola “comunismo” il Papa ha fatto riferimento ai 50 anni di dittatura a cui è stata sottoposta la Romania. E lo ha fatto proprio nello stesso luogo dove tanti greco-cattolici furono perseguitati o uccisi nel 1948 per aver rifiutato di entrare a far parte della Chiesa ortodossa.
Tra di loro, anche i sette vescovi martiri che ha beatificato, tutti perseguitati e incarcerati dal “regime dittatoriale e ateo”.
“Continuare a lottare, come questi beati, contro queste nuove ideologie che sorgono”, la consegna al popolo romeno.
“Anche oggi riappaiono nuove ideologie che, in maniera sottile, cercano di imporsi e di sradicare la nostra gente dalle sue più ricche tradizioni culturali e religiose”, la tesi di Francesco, che cita le “colonizzazioni ideologiche che disprezzano il valore della persona, della vita, del matrimonio e della famiglia, con proposte alienanti, ugualmente atee come nel passato”.
Cultura dell’incontro
“Costruire una società inclusiva”, il compito affidato fin dall’inizio alla terra che Giovanni Paolo II aveva battezzato “il giardino della Madre di Dio”.
“Quanto più una società si prende a cuore la sorte dei più svantaggiati, tanto più può dirsi veramente civile”, il tema del primo discorso di Francesco, rivolto da Bucarest alle autorità.
“Abbiamo bisogno di aiutarci a non cedere alle seduzioni di una ‘cultura dell’odio’ e individualista – l’appello lanciato durante l’incontro con il Sinodo permanente della Chiesa ortodossa romena – che, forse non più ideologica come ai tempi della persecuzione ateista, è tuttavia più suadente e non meno materialista”.
“Dobbiamo trovare la forza di lasciarci alle spalle il passato e di abbracciare insieme il presente”, l’invito prima della recita del Padre Nostro nella nuova cattedrale ortodossa di Bucarest. E la “cultura dell’incontro”, oltre che la cifra dell’’ecumenismo, è anche la parola-chiave della messa nella cattedrale cattolica di San Giuseppe, sull’esempio di Maria e delle “tante donne, madri e nonne di queste terre che, con sacrificio e nascondimento, abnegazione e impegno, plasmano il presente e tessono i sogni del domani”. “Non lasciamoci rubare la fraternità dalle voci e dalle ferite che alimentano la divisione e la frammentazione”, dice il Papa dal santuario
di Sumuleu-Ciuc.
Dobbiamo “lottare perché quelli che ieri erano rimasti indietro diventino i protagonisti del domani, e i protagonisti di oggi non siano lasciati indietro domani”.
“Il maligno divide, disperde, separa e crea discordia, semina diffidenza”, il monito durante l’incontro con i giovani e le famiglie, a Iasi: “Noi apparteniamo gli uni agli altri e la felicità personale passa dal rendere felici gli altri. Tutto il resto sono favole”.
“Il peggio viene quando vediamo più trincee che strade”, il grido d’allarme di Francesco.
M.Michela Nicolais