Satman un attrezzo da lavoro

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Di Ennio Chiodi

Il Tribunale di Ginevra ha condannato a pesanti pene detentive quattro componenti della dinastia indiana Hinduja, accusati di avere approfittato in maniera “indegna” delle persone impiegate come domestici nelle loro residenze svizzere. La famiglia Hinduja, con un patrimonio stimato da Sunday Times attorno ai 48 miliardi di euro, è la più ricca d’Inghilterra ed è nota oltre che per le numerose imprese in diversi settori dell’economia, per le spese senza limiti, lo sfarzo e la pacchiana esibizione del loro smisurato benessere economico. Gli Hinduja avrebbero approfittato della scarsa istruzione e della debolezza dei loro dipendenti, reclutati tra i ceti più umili del loro Paese di origine, pagati con retribuzioni ridicole e sottoposti a trattamenti degradanti e umilianti. Così – ricorsi a parte – procede la giustizia svizzera. Da noi non sappiamo ancora cosa potranno attendersi dalla giustizia italiana i proprietari dell’azienda agricola di Borgo Santa Maria, in Agro Pontino, che, invece di far soccorrere un lavoratore ferito molto gravemente da un macchinario, lo hanno caricato su un furgone e scaricato davanti alla sua misera abitazione, non dimenticando tuttavia di raccogliere il suo braccio amputato, metterlo in una cassetta usata per la raccolta della frutta e lasciarlo vicino al giovane già agonizzante. A nulla sono valse le angosciate richieste di aiuto della moglie, alla quale è stato sottratto il cellulare nel dubbio che contenesse qualche prova del terribile e disumano sfruttamento cui sono sottoposti quei lavoratori, reclutati con le regole di un collaudato sistema criminale di caporalato sul quale si indaga da anni, senza peraltro intaccarne operatività ed efficienza. Satman Singh, detto Navi, 38 anni, è morto qualche ora dopo in ospedale, ma alla moglie Sony sarà concesso dallo Stato italiano – bontà nostra – un permesso di soggiorno straordinario. Immigrato irregolare, ma utilissimo nei campi di raccolta del pomodoro e di altri ortaggi, Satman è stato “utilizzato” come un attrezzo da lavoro che si getta via quando si rompe per sostituirlo con un altro. È stato scritto tanto in questi giorni di litanie ripetute, “mea culpa” ipocriti e tardivi, impegni rinnovati e mai rispettati. Aspetteremo fiduciosi, magari consolandoci con altre storie, come quella di Abdulkader Hassan Omar, detto Dolly, un pescatore somalo, perseguitato in Patria, fuggito e approdato come rifugiato politico nel 2008 in Italia, dopo lunghi mesi passati nei terribili campi libici di raccolta di esseri umani. Oggi è un bioapicoltore di successo grazie alla passione per la natura, alla sua caparbietà e alle sue competenze, per una volta riconosciute e valorizzate. Raro – di questi tempi – ma fortunatamente possibile.

enniochiodi@gmail.com

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